Italicum, la vera storia secondo D’Alimonte

Pubblicato il 8 Marzo 2014 alle 11:50 Autore: Gabriele Maestri
in foto il professor d'alimonte ed il premier renzi durante una edizione della Leopolda

In pochi lo hanno proposto, in diversi l’hanno criticato (anche alla radice), quasi tutti ne stanno discutendo. Il progetto di legge elettorale della coppia Renzi-Berlusconi però meritava di essere analizzato da chi, in qualche modo, ne è stato il principale artefice sul piano tecnico, per lo meno in una prima fase: Roberto D’Alimonte oggi ha dato la sua versione dell’Italicum, collocandone esattamente la genesi nel quadro politico travagliato degli ultimi mesi.

D’Alimonte ha accolto l’invito della Società italiana di studi elettorali che proprio oggi ha tenuto un convegno sull’argomento a Roma presso l’istituto Sturzo: una sede tutt’altro che casuale, visto che proprio il fondatore del Partito popolare italiano aveva una visione particolarmente attuale della materia elettorale. «Non la considerava un argomento a sé – ha precisato il segretario generale dell’Istituto, Giuseppe Sangiorgi – ma lo legava strettamente alla natura e al ruolo dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, e alle questioni sul loro finanziamento».

professor d'alimonte

professor d’alimonte

Il discorso è tanto più delicato ora, se si considera che la legge elettorale in discussione attualmente alla Camera «potrebbe chiudere definitivamente la Seconda Repubblica – ha precisato il politologo Ilvo Diamanti, al suo ultimo giorno di presidenza della Sise – così come la Prima era finita già a partire dal referendum sulla preferenza del 1991». Se è vero che, sempre secondo Diamanti, «una forma di governo è buona quando non c’è bisogno di votare troppo e quando il proprio voto conta», non ci sarebbe da stupirsi nell’apprendere che buona parte degli italiani (a dar retta agli ultimi sondaggi) appezzino il premio di maggioranza nell’ottica della stabilità, mentre siano profondamente contrari alle liste bloccate.

L’attenzione, in ogni caso, era tutta per il profilo che avrebbe tracciato D’Alimonte, che ha subito piantato paletti ben precisi sul suo effettivo apporto alla costruzione della proposta in materia elettorale: «Ho collaborato con Matteo Renzi sostanzialmente a gennaio: io e lui siamo d’accordo sulla necessità di trasformare la posizione di chi ottiene una maggioranza relativa di voti in quella di una maggioranza assoluta di seggi». Il sistema che meglio garantirebbe questo risultato sarebbe l’applicazione del collegio uninominale con il doppio turno: l’ipotesi però si scontrerebbe con il veto assoluto di Silvio Berlusconi e di Denis Verdini.

verdini

È seriamente tentato D’Alimonte di tracciare una sorta di albero genealogico dell’Italicum: «Se Renzi e Berlusconi sono i genitori del progetto, Verdini è lo zio, così come ci sono vari nipoti e un nonno». Al di fuori della battuta, però, emerge chiaro il desiderio del Cavaliere di arrivare a una drastica semplificazione del sistema dei partiti: «Anche per questo – riconosce il politologo – Berlusconi aveva premuto per un sistema “spagnolo rigoroso”, che avrebbe messo in serissima difficoltà i partiti piccoli e avrebbe decisamente spinto per approdare a un sistema non solo bipolare, ma addirittura quasi bipartitico, aggiungendo anche il congegno del premio di maggioranza per rafforzare la selettività».

Se questo era stato il primo accordo che Berlusconi e Renzi avevano trovato tra loro all’inizio di gennaio, non si è fatta attendere la levata di scudi delle forze politiche e non solo la loro: «Occorre che le istituzioni si prendano la responsabilità dei loro interventi: da più parti il sistema così delineato fu considerato troppo maggioritario e lo si dovette cambiare». Nomi diretti D’Alimonte non ne fa, anche solo per prudenza o garbo istituzionale, ma si capisce che punta molto in alto.

Il passaggio successivo non è stato, come parte dei media aveva ipotizzato, un sistema “spagnolo correto”, bensì già l’Italicum poi noto, salvo alcune modifiche tutt’altro che trascurabili: «Il cambio di sistema – nota lo studioso – era dimostrato dal fatto che la distribuzione dei seggi avveniva “dall’alto” e non più dal basso come nel vero sistema spagnolo». In questa fase, era previsto un premio del 20% per chi avesse superato una soglia del 33%, in caso contrario i seggi sarebbero stati attribuiti con riparto proporzionale. Via via la soglia di accesso è aumentata e il volume del premio si è ridotto, fino alle quote attuali (premio del 15% raggiungendo il 37% dei voti), ma la struttura è rimasta la stessa.

Una struttura che, però, spaventava molto D’Alimonte: «Per me era un grandissimo rischio lasciare le regole così, non sapevo che assetto avrebbe avuto il mondo politico italiano all’atto del voto successivo, per cui insistetti con Renzi perché chiedesse a Berlusconi il doppio turno». Un’eventualità che, lo si è visto, era del tutto sgradita al Cavaliere. Nel noto incontro tra Renzi e l’ex presidente del Consiglio, la proposta viene fatta, ma Berlusconi dice di doversi consultare con il suo uomo di fiducia in materia elettorale, Verdini: «Anche per questo – ammette il politologo – dopo l’incontro con l’ex premier al Nazareno, Renzi ha volutamente glissato sulle questioni legate alla legge elettorale, visto che tutto era rimasto in sospeso.

Una manciata di ore dopo, quindi il successivo 20 gennaio, il nodo si è sciolto con il sì di Verdini via telefono all’introduzione del doppio turno. D’Alimonte è stato testimone della chiamata e tuttora ritiene un “mezzo miracolo” il cambio di idea di Silvio Berlusconi: «Se ha accettato il doppio turno nonostante le sue fortissime resistenze – riconosce lo studioso – lo si deve soprattutto all’abilità di Matteo Renzi, ma il compromesso c’è stato comunque». Come contropartita, infatti, Berlusconi avrebbe ottenuto che la soglia di accesso al premio fosse relativamente bassa da consentirgli di vincere già al primo turno, senza dover affrontare un ritorno alle urne; altro punto cardine del compromesso sarebbe stata l’adozione di liste bloccate.

renzi a treviso per la prima visita da premier

Il contributo diretto e costante di Roberto D’Alimonte all’Italicum però si chiude qui. Il giudizio del politologo sulla legge uscita dal complesso delle trattative, con anche tutti gli aggiustamenti successivi, è generalmente positivo, «si tratta di un passo avanti, sia pure dimezzato»: su alcuni punti, però, il giudizio è e resta piuttosto severo.

Così D’Alimonte punta il dito contro il premio di maggioranza – che, a differenza dell’opinione comune, sarebbe troppo basso, fino a diventare «ridicolo» in caso di doppio turno – e contro il proliferare delle soglie di sbarramento, troppe e troppo inclini agli “sconti”: «Avrei preferito una sola soglia al 4% per tutti». Non si è fatto abbastanza per evitare il formarsi di “liste emotive”, con nomi e simboli appariscenti, senza alcuna consistenza ma in grado di attirare voti nel tentativo di vincere al primo turno, così come crea grossi problemi la distribuzione centralizzata dei seggi, che rischia di trasformarsi in una vera roulette per i partiti minori.

Al momento, però, l’attenzione è attirata soprattutto dall’Italicum dimezzato, applicato cioè solo alla Camera: «Lì probabilmente sta la ragione del cambio di strategia di Renzi – ha notato lo studioso – lui ha visto in serio pericolo l’approvazione rapida e sicura della legge elettorale concordata con Berlusconi, così ha deciso di andare al governo senza vincere; si è accontentato dell’uovo oggi, cioè la legge elettorale solo per la Camera, senza sapere se potrà avere la gallina domani». E se sarebbe stato naturale prima riformare il Senato e poi cambiare la legge, nessuno voleva dare a Renzi una pistola carica, per tornare al voto in ogni momento.

Una stoccata, da ultimo, colpisce la Corte costituzionale: «La Consulta, cancellando il premio di maggioranza senza togliere le soglie differenziate, ci ha lasciato un sistema elettorale incostituzionale, soprattutto al Senato. L’eventualità che i partiti minori siano sottoposti a soglie del tutto fuori dalla loro portata o abbastanza raggiungibili è lasciata alla bontà dei partiti maggiori, che decidono se farli entrare in coalizione. È costituzionale questo?».

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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