Renzi, lo sfondamento a sinistra e l’effetto band-wagon
Un tempo si parlava di “luna di miele”, metafora di cui giornalisti e osservatori si servivano per descrivere quella fase – immediatamente post-elettorale – in cui la maggioranza uscita tale dalle urne poteva dare avvio alla sua azione politica contando su un sostegno popolare implicito e su una fiducia che, tendenzialmente, rimaneva a livelli rassicuranti per diversi mesi. Tuttavia, poiché la fase storica che attraversiamo è contraddistinta da un elettorato che esprime livelli minimi di fedeltà alle fazioni politiche, e poiché l’esecutivo in carica non è frutto di una elezione diretta, non sembra opportuno parlare di “luna di miele” propriamente detta.
In ogni caso, è innegabile che Matteo Renzi abbia raggiunto l’apoteosi della popolarità proprio in questi ultimi mesi, in concomitanza con una consultazione elettorale di second-order che gli ha fornito comunque una legittimazione popolare quasi diretta, interpretabile come il frutto di un’approvazione dell’elettorato nei confronti della sua azione politico-amministrativa, fatta salva un’astensione decisamente più elevata rispetto alla media.
Il gradimento popolare che continua, per ora, a coagularsi intorno alla figura del presidente del Consiglio trova un corrispondente riscontro anche nelle aule parlamentari, dove il consenso per Matteo Renzi è stato ben più ampio di quanto i numeri reali facessero pensare. Sul piano della politics, a fare la differenza rispetto ai suoi due predecessori è stata proprio la capacità, da parte di Renzi, di destabilizzare gli assetti politici, acuendo le divisioni interne in casa altrui e “pescando” elementi qua e là, aprendo indistintamente il dialogo a tutti i soggetti politici dell’arco parlamentare.
Il primo a subire la folgorazione renziana fu Edoardo Nesi, scrittore già Premio Strega eletto a Montecitorio con Scelta Civica, che abbandonò nello scorso ottobre, ritenendo l’allora sindaco di Firenze (il quale già iniziava a tracciarsi la strada per Palazzo Chigi) “l’unica possibilità”. Emblematico è il fatto che ancora oggi, malgrado Renzi sia all’apice del successo, Nesi risulti ancora iscritto al gruppo misto, come a dire “sto con la persona, non con il partito”.
È fuor di dubbio quindi che l’affermazione elettorale e popolare del Partito Democratico non possa essere disgiunta dalla figura-chiave di Renzi, che ne è il principale fautore. Il successo del partito è solo merito suo. Lo hanno capito bene centinaia di “renziani della seconda ora”, ovvero tutti quei democrat che avevano sostenuto Bersani alle primarie del 2012 per poi ripensarci dopo la “non-vittoria” (cit.) delle ultime politiche. Basti pensare a Stefano Bonaccini, un tempo bersaniano di ferro, attualmente responsabile Enti Locali, selezionato direttamente dal segretario-premier, in virtù della fedeltà dimostrata nel corso della campagna per le ultime primarie per la segreteria, di cui Bonaccini fu coordinatore.
Il segreto del successo dell’ex enfant prodige della politica fiorentina, in ogni caso, sta proprio nelle sue indiscutibili abilità comunicative. Renzi piace, perché dice alla gente ciò che la gente vuol sentire. E lo dice sapendo efficientemente coniugare concretezza e idealismo. È giovane, brillante, moderno. Si è trovato ad essere l’uomo giusto al momento giusto, c’è chi lo ritiene salvifico per il paese. Tra le critiche che ne hanno accompagnato l’ascesa, c’è quella di non essere sufficientemente “di sinistra”.
Già all’epoca della prima Leopolda, infatti, l’allora semisconosciuto primo cittadino si era contraddistinto per le bordate nei confronti della Cgil e di una sinistra a suo giudizio troppo incartapecorita, arroccata ai retaggi ideologici e poco incline ai tempi correnti. Un linguaggio e uno stile subito notato (e apprezzato) anche e soprattutto a destra, dove la valutazione positiva nei confronti di Renzi incrementò ulteriormente all’indomani della sua partecipazione ad un pranzo organizzato da Berlusconi ad Arcore nel dicembre 2010, che suscitò invece veementi polemiche nel centrosinistra.
In ogni caso, le travagliate vicende interne che hanno portato Renzi a conquistare prepotentemente la leadership del partito (e del paese) ci pongono di fronte a un evidente dato di fatto: Renzi ha sbancato proprio a sinistra. Per averne una riprova, basta guardare nel dettaglio alla distribuzione geografica dei voti delle ultime primarie del Pd. Renzi ha ottenuto più voti proprio nelle regioni rosse, quelle delle sezioni nostalgiche, degli anziani militanti partigiani, dei busti di Lenin, delle feste dell’Unità. È incauto sostenere che questo genere di elettorato, tradizionalmente legato a un certo tipo di cultura politica, si sia convertito improvvisamente al modello-New Labour a cui Renzi si ispira. Ma è lecito interrogarsi sui motivi per cui Renzi ha sfondato proprio qui.
Al di là delle spiegazioni squisitamente politiche (sulle quali, invero, ognuno sembra detenere una propria verità) il motivo principale di questa trasformazione – da un punto di vista tecnico e “strategico” – sta in quello che i politologi chiamano “effetto band-wagon”, vale a dire – usando la definizione di Paolo Natale, che insegna Analisi dei sondaggi all’Università di Milano – “la propensione al voto per il candidato o partito che il clima di opinione considera (già) vincitore”.
Ed ecco che iscritti e militanti hanno contribuito alla valanga renziana più o meno nella stessa misura di quanto lo abbiano fatto i tanti cittadini (una buona quota dei quali non ascrivibile all’elettorato fedele del Pd) che se Renzi non fosse stato tra i candidati sarebbero rimasti a casa. L’elettore medio del Pd, invece, il “simpatizzante”, ha visto in Renzi – oltre all’immagine dell’uomo nuovo e pulito, in contrapposizione a diversi politici d’apparato ex Pci coinvolti in scandali di ogni sorta – anche l’unico con concrete possibilità di successo dopo decenni di sconfitte umilianti sconfitte o di “non-vittorie”.
Un effetto band-wagon si è venuto a creare anche tra gli stessi rappresentanti del Pd all’interno delle istituzioni elettive, molti dei quali hanno cambiato casacca nel giro di poche settimane, suscitando anche un malcelato risentimento da parte dei renziani della prima ora, poi rientrato. Le fortunose circostanze politiche che hanno visto, come ricordato, gli altri partiti in piena crisi, hanno fatto il resto. Emblematico, poi, è il fatto che gli effetti del ciclone-Renzi abbiano iniziato ad avere larga eco anche a sinistra del Pd.
La diaspora in corso all’interno di Sel, infatti, ha spinto i primi due deputati dissidenti (Aiello e Ragosta) ad abbandonare il partito per entrare nel Pd proprio passando per la porta principale. Nell’intervista rilasciata a Repubblica il giorno seguente alla sua fuoriuscita, l’on. Aiello dichiarò senza mezze misure di aver voluto sposare in pieno il progetto-Renzi. Inoltre, sembra che anche il gruppo degli ammutinati di Sel guidati da Gennaro Migliore ora riunitisi in “Led” (“Libertà e diritti – Socialisti Europei”) vedrà a breve il suo approdo naturale nel Pd.
Tra l’altro, lo stesso Renzi ha dichiarato di guardare con rispetto e interesse a questo gruppo, aprendo di fatto le porte del suo partito agli scontenti. Ancor più esplicito è stato il presidente del partito Matteo Orfini, il quale – in un’intervista rilasciata a La Stampa il 12 agosto – ha lanciato un appello al fine di aprire le porte del Partito Democratico ai fuoriusciti di Sel e di Scelta Civica. Migliore ha subito raccolto la palla al balzo, spingendo anzi ad accelerare i tempi di questo processo di “integrazione”.
Inoltre, l’aver veicolato con decisione l’ingresso del Pd nella famiglia del Partito Socialista Europeo (tema su cui si lo stallo è durato anni, con l’ostinata opposizione degli ex Margherita), la nomina di un “giovane turco” alla Presidenza del partito, la strenua difesa delle tradizioni simboliche (“dobbiamo voler bene alla nostra storia, torniamo a chiamare le nostre feste Feste dell’Unità”) rappresentano chiari segnali tesi a rassicurare quella parte degli iscritti Pd – certo non minoritaria – che ha vissuto attivamente tutte le fasi (Pci-Pds-Ds-Pd) della tormentata storia della sinistra nella Seconda Repubblica, e che si ritrova oggi a fare i conti con una generazione di dirigenti lontana anni luce da quella formazione culturale e politica.
Qualche tempo fa Angela Mauro, in un articolo sull’Huffington Post, ha parlato di “effetto-calamita”, un’espressione che calza a pennello. La piattaforma politica trasversale e la lungimirante prospettiva di governo del giovane presidente del Consiglio attrae a destra e sinistra, forse proprio perché intende ripudiare le classiche categorie politiche, pur strizzando l’occhio in entrambe le direzioni ogniqualvolta lo ritiene opportuno. Una strategia inclusiva che oggi appare vincente, ma che in un futuro più prossimo di quanto si pensi potrebbe portare a più di qualche grattacapo e a notevoli problemi di sovrabbondanza.