Stato Islamico: l’economia della più ricca organizzazione terroristica
(In collaborazione con Mediterranean Affairs)
Secondo gli ufficiali arabi e occidentali, lo Stato Islamico (IS) è la più ricca organizzazione terroristica rappresentando una minaccia senza precedenti. L’IS ha una solida base finanziaria grazie al contrabbando del petrolio, di materie prime, d’inestimabili antichità saccheggiate da scavi archeologici e alla tassa religiosa del 10 per cento sui redditi di una popolazione di circa 8 milioni di persone.
Le fortune dello Stato Islamico, in buona parte, sono state ereditate da quello che rimane di Al Qaeda. Inizialmente si pensava che si finanziasse con le donazioni dei musulmani radicali e di altri Paesi, sfruttando il network internazionale, ovvero la fonte più importante di propaganda. Dalla rete affluiscono le donazioni del mondo arabo-musulmano e dei simpatizzanti che vivono in Occidente ma, secondo il quotidiano statunitense ‘The Wall Street Journal’, adesso lo Stato Islamico si autofinanzia.
David S. Cohen, il Sottosegretario del Tesoro per Terrorismo e Intelligence Finanziaria degli Stati Uniti, ha puntato il dito contro Qatar e Kuwait che finanzierebbero i gruppi estremisti dell’IS e del Fronte al-Nusra. Tuttavia, si tratta soltanto di una piccola parte rispetto alle altre attività criminali che generano milioni di dollari mensilmente.
Infatti, da al-Raqqa (Siria) a Mossul (Iraq) sono riscosse tasse agricole e sulle spese di trasporto, oltre alle estorsioni imposte ai cristiani e alle altre minoranze. L’IS fa affari anche con persone delle regioni con cui sono in guerra: controllano la vendita di petrolio, grano e oggetti di antiquariato su un mercato grigio con degli acquirenti insoliti, come il regime siriano, cui vende l’elettricità dopo aver sottratto dighe e centrali elettriche, e uomini d’affari sciiti, curdi, libanesi e iracheni.
Photo by James McCauley – CC BY 2.0
Per i Paesi che contrastano lo Stato Islamico, i proventi rappresentano un vero problema: una limitazione delle attività economiche che finanziano l’organizzazione può causare una crisi umanitaria nelle zone già colpite dalla guerra. Hassan Abu Hanieh, esperta dei gruppi islamisti, sostiene che i guerriglieri dell’IS “hanno un’economia stabile all’interno dei propri territori, dalla Siria all’Iraq”.
Un altro introito lo rappresentano i riscatti, che però sono meno cospicui rispetto alle loro attività domestiche.
In Siria, gli insorti controllano otto campi di petrolio e gas nelle provincie al-Raqqa e Deir el-Zor, secondo quanto riferito dai ribelli siriani che controllavano la zona. Da quanto ricavato da queste attività, fanno poi affari con i cittadini dei Paesi con cui sono in guerra.
Il “loro” prezzo di un barile di petrolio è compreso fra 26 e 35 dollari, venduto poi a uomini d’affari locali, quelli iracheni o alle raffinerie finanziate da turchi, libanesi o iracheni. I ribelli siriani stimano che il petrolio prodotto per l’IS sia fra 30.000 e 70.000 barili al giorno.
Il commercio estero è supportato da una fitta rete di commercianti curdi che trasportano il petrolio nel Kurdistan iracheno e lo vendono ai turchi o agli iracheni. I commercianti fanno contrabbando di petrolio trasportandolo nei loro Paesi e vendendolo a prezzi più bassi rispetto a quelli locali, oppure rivendendolo al governo siriano.
La quantità di petrolio confiscato lungo la frontiera turco-siriana è cresciuta del 300 per cento dall’inizio delle rivolte siriane dal 2011, secondo quanto dichiarato dal Ministro degli Affari Esteri della Turchia. “Cerchiamo di capire come fermare il contrabbando, però è molto difficile controllare la frontiera”, dichiara un rappresentante dello stesso Ministero.
Le sanzioni applicate dall’ONU sono state le prime mosse della comunità internazionale volte a fermare il profitto e le operazioni dell’IS. Tuttavia, secondo gli esperti di terrorismo, considerati i proventi degli affari locali, sarà molto difficile interrompere il finanziamento.
“Le misure da prendere contro lo Stato Islamico devono tenere conto della popolazione locale. Qualsiasi nuova misura deve essere pesata in rapporto ai bisogni della popolazione che soffre sotto il controllo dello Stato Islamico”, così ha dichiarato Alexander Evans, capo del team dell’ONU dedicato a investigare le fonti di finanziamento dell’IS.
Secondo i bilanci ritrovati, prima della caduta di Mossul l’organizzazione aveva circa 875 milioni di dollari, e poi due miliardi grazie ai soldi rubati dalle banche e con le armi trafugate.
Andreea G. Iordache
(Mediterranean Affairs – Editorial board)
Immagine in evidenza: photo by James McCauley – CC BY 2.0