Salvare Kobane? Erdoğan, i curdi e la città che resiste
Saving Kobane, salvare Kobane. È l’appello che rivolge Al Jazeera a favore di Ayn al-Arab, l’enclave curda in Siria, al confine con la Turchia, ancora nella morsa del terrore, iniziato dopo l’invasione dell’ISIS il 16 settembre scorso.
In queste ore da Kobane si fugge. A piedi o in auto. Che vengono poi abbandonate nei campi a pochi metri dal confine, come mostrano le foto dello Spiegel. Migliaia di profughi curdi stanno lasciando Kobane diretti in Turchia. I combattenti curdo-siriani però non mollano e si riprendono palmo a palmo la loro città attaccata dai terroristi islamici.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono morte finora 662 persone, compresi 20 civili, due dei quali adolescenti, giustiziati dagli uomini del califfato. Eppure il governo turco di Ahmet Davutoğlu non ha nessuna intenzione di intervenire militarmente in aiuto di Kobane. I motivi di questa reticenza sono molteplici, non ultimo il fattore Assad, come spiega la giornalista turca Fazila Mat.
“Sono in corso grandi proteste dei curdi in Turchia per via del rifiuto del governo di intervenire. La linea di confine tra Siria e Turchia a Kobane è artificiale: in realtà lì ci sono legami di parentela, di sangue, famiglie che sono state spezzate”, spiega Mat, che incontriamo il giorno prima della sua partenza per Istanbul.
“Il governo turco dice chiaramente che non intende avviare un intervento militare in territorio curdo, nonostante abbia approvato in Parlamento una mozione che autorizza l’esercito turco ad andare sia in Siria che in Iraq” dice: “Ha vincolato invece la possibile apertura di un corridoio umanitario, per facilitare il passaggio di armi e militari, alla richiesta di smettere di fare alleanze con Assad e di rinunciare alle pretese autonomiste curde al confine”. Questione questa, fuori discussione.
Insomma Ankara “ha bisogno che sia garantito un obiettivo esplicitamente: quello di mandare via Assad. Finora Erdoğan sta limitando il suo aiuto al piano umanitario”.
L’altra spiegazione è tutta politica. “Nel governo di Ankara confliggono due atteggiamenti” spiega Ayse Saracgil, docente di letteratura turca all’Università di Firenze: “Da una parte c’è quello ‘kemalista’ (Ataturk è indiscutibilmente un eroe nazionale) che punta all’intoccabilità territoriale ed è fortemente nazionalista. Vede perciò un rischio nel rafforzamento dei curdi; dall’altra c’è una tendenza al neo-ottomanesimo e alla valorizzazione del passato ottomano, che ruota attorno all’idea politica di unità e condivisione della religione sunnita”.
Essendo i curdi di Siria per la maggior parte sunniti, meriterebbero dunque tutto l’appoggio militare turco. Eppure quest’intervento non arriva. Nonostante le numerosissime proteste interne curde che spingono per una presa di posizione netta.
A un anno dalle proteste di Gezi Park, la Turchia è un paese diviso, pieno di contraddizioni interne, e sul filo del rasoio sia nel Kurdistan iracheno (dove però si appoggiano anche militarmente i curdi a Erbil), che in quello siriano.
“I curdi hanno organizzato moltissime manifestazioni, c’è stato il divieto di uscire per le strada in sei province turche e una situazione di conflitto molto forte tra forze dell’ordine e civili curdi, con scontri anche ad Istanbul, Ismir e nelle città del Mar Nero”, dice ancora Fazila Mat.
La società civile turca, che da piazza Taksim in poi appare sempre più consapevole e attiva, attraverso le petizioni e le organizzazioni non governative, spinge il governo di Davutoğlu a prendere una posizione pro-curda. Finora senza successo.
Ma c’è forse anche un’altra spiegazione alla reticenza di Ankara (e degli Usa) a ‘salvare’ Kobane: “Al contrario di Erbil (Kurdistan iracheno, ndr) Kobane non è ricca di petrolio e gas naturale”, scrive Namo Abdulla su Al Jazeera.
“Se i curdi iracheni hanno ricevuto assistenza dall’Occidente, ai curdi siriani non è toccata la stessa sorte” dice Abdulla: “La città di Kobane, che è parte della zona dichiarata unilateralmente dai curdi ‘semi-autonoma’ a gennaio scorso, non ha lo stesso valore strategico che possiede Erbil per gli Stati Uniti”.
Eppure, scrive ancora Al Jazeera, “Kerry così come i leader turchi, stanno sottovalutando la posta in gioco con la caduta di Kobane. Salvare Kobane significa impedire all’ISIS di mettere a segno una vittoria più grande. Prendersi questa città di confine per l’ISIS può anche servire da strumento per il reclutamento di estremisti e come porto sicuro per i combattenti stranieri che arrivano in Turchia. E ancora più importante: la caduta di Kobane potrebbe significare un rallentamento del processo di pace tra la Turchia e i ribelli del Pkk”. Processo ancora faticosamente in corso.
Fattori questi, che già da soli farebbero pendere il piatto della bilancia decisamente dalla parte del sostegno ai curdi, a prescindere da qualsiasi considerazione di tipo umanitario.
Immagine in evidenza: photo by Jordi Bernabeu Farrús – CC BY 2.0