NEET, chi non studia e non lavora, fenomeno italiano
Sono molti i record italiani e le caratteristiche economiche per cui si contraddistingue in Europa. Non sempre positive, anzi.
Tra le sue peculiarità quella categoria particolare dei NEET, ovvero i Not in Education, Employment, Training, coloro che non stanno studiando nè lavorando nè facendo formazione, in particolare tra i 15 e i 29 anni, anche se l’età si sta alzando.
Sono coloro che portano l’Italia ad avere tra i tassi di occupazione più bassi d’Europa, intorno al 55,9%. Non risultano neanche tra i disccupati, portando così il tasso di disoccupazione a livelli crescenti, ma comunque più bassi di quelli di altre nazioni in profonda crisi come Grecia o Spagna. Qualora si riversassero tra gli attivi, come in parte stanno facendo, la disoccupazione schizzerebbe verso quei livelli. Ed è ciò che comincia ad accadere.
Perchè i NEET sono coloro che spesso un’occupazione non l’hanno mai avuta, nel caso italiano, anche s emagari per un certo periodo l’hanno cercata.
L’agenzia europea Eurofound si occupa del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nell’Unione e ha svolto un’analisi della situazione dei NEET nell’ambito della situazione dell’occupazion dei giovani in Europa.
I NEET secondo il rapporto ubblicato nel 2013 risultavano essere 14 milioni, ovvero il 15,4% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. Quasi la metà risulta disoccupata, ma gli altri sono inattivi. Vediamo nell’infografica la situazione:
L’Italia è in testa in Europa occidentale, superata nella UE solo dalla Bulgaria: 22,7% di NEET, contro il 5,5% dei Paesi Bassi o il 7,6% della Danimarca.
L’Italia pure supera Paesi come Spagna e Irlanda che hanno comunque avuto problemi di disoccupazione maggiori dell’Italia.
Da dove deriva tale fenomeno e quali conseguenze ha? Una cosa è chiara: vi è un problema NEET a prescindere dalla crisi economica, se il tasso di NEET è anche 3 volte quello di Paesi che hanno una disoccupazione solo la metà della nostra, vuol dire che vi è un impatto più che proporzionale su questo segmento di sofferenza sociale.
Eurofound ha individuato a livello europeo dei fattori che favoriscono il fattore NEET, anche a parità di congiuntura economica:
Alcuni fattori sono più fondamentali in alcuni Paesi del Nord o dell’Europa Occidentale, come il tasso di divorzi, o l’abitare in località remote o la disabilità, che da noi costituisce una percentuale esigua dei NEET.
In Italia conta moltissimo l’educazione, con una quota di laureati e soprattutto di istruzione tecnica avanzata molto inferiore, in particolare qualitativamente, alla media europea, e certamente la situazione familiare, da un punto di vista materiale e culturale, come spinta all’autoformazione.
Non a caso sono stati individuati dei modelli molto diversi di NEET, ben 4 in Europa, e l’Italia rientra in quello comune a Paesi di cui normalmente non ci sentiamo in compagnia da un punto di vista economico: Bulgaria, Romania, Grecia, Slovacchia:
Se nel caso dei Paesi più avanzati i pochi NEET sono un fenomeno più sociale che economico, quindi di ghetti e immigrazione, di mancata istruzione, di emarginazione sociale, nel nostro caso è quello di persone anche con titoli di studio alti (non si sa quanto spendibili però) che rimangono inattive, soprattutto donne, e con un alto livello di scoraggiamento per la mancata corrispondenza tra studi e possibilità occupazionali.
E’ un modello ancora diverso da quello spagnolo in cui si tratta di uomini che comunque hanno fatto esperienza di disoccupazione, quindi si tratta di un fenomeno, il nostro, a metà tra l’economico e il sociale. Il fatto che si tratti in particolare di donne fa pensare all’impatto di fattori culturali.
Il fenomeno NEET non è un danno solo per la persona in sè, ma per tutta la società. Eurofound ha caloclato l’impatto negativo sul PIL, che in media è del 1,2% per la mancata utilizzazione di potenziale forza lavoro, ma è superiore per l’Italia:
Anche qui, era calcolato che per l’Italia tra i 2% e il 2,5% fosse la perdita di valore per il fenomeno NEET, come per Ungheria e Polonia, superati solo da Grecia, Bulgaria, Lettonia e Irlanda, anche se per quest’ultimo Paese ora presumibilmente le cose vanno molto meglio.
Se quindi in Italia il tasso di inattivi che non studiano e non lavorano è così più alto rispetto agli altri Paesi anche di quanto si potrebbe immaginare osservando il gap pur presente, dei tassi di disoccupazione generali, si può immaginare una inefficienza endogena, al di là della crisi, nel collocamento delle persone al lavoro.
E’ il punto su cui da sempre insiste Pietro Ichino: in Italia, sostiene il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, avvengono 1,6 milioni di assunzioni a tempo indeterminato, nonostante la crisi. Sono il 16% delle assunzioni totali che sfiorano i 10 milioni.
Inoltre ci sono i skill shortages, secondo la CGIA di Mestre 45 mila solo nel Veneto, quindi probabilmente sui 300-400 mila in tutta Italia.
Questi vanno a nutrire il numero dei posti vacanti, il cui numero varia enormemente. Ichino cita Face4Jobs che ne elenca 1,3 milioni in Italia, cifra contestata delle fonti come Eures che ne cita solo 1/150, ovvero meno di 10 mila. Nel mezzo vi è Eurostat che ne conta 112 mila per l’Italia.
In ogni caso il basso numero di posti vacanti citato da Eures, che utilizza solo dati dei collocamenti pubblici, da solo indica come vi sia proprio nel collocamento pubblico poca conoscenza delle esigenze delle imprese e della possibilità di realizzare matching.
Ichino sottolinea che manca una cultura dell’incentivo a trovare un nuovo posto al disoccupato o anche a chi cerca un primo impiego, non vi è interesse negli uffici di collocamento a creare un collegamento tra cittadini e imprese, per questo propone un voucher legato alla persona da occupare e versabile solo a collocamento ottenuto.
Un collocamento che sia affiancato da un orientamento scolastico e professionale per gli adolescenti, un servizio al livello di quelli del Centro e Nord-Europa, capaci di raggiungere capillarmente ogni ragazzo all’uscita da ciascun ciclo scolastico e di informarlo compiutamente su tutto ciò che gli offre il mercato, in termini di occupazione immediata e/o di strumenti per accedervi.
Un sistema dei servizi per l’impiego che offra a tutti i lavoratori la possibilità di accedere ai servizi delle agenzie specializzate, quelle che conoscono davvero i flussi delle assunzioni nel mercato del lavoro, sanno ciò che cercano le imprese.
Il punto fondamentale, che ora pare un tabu in primi per i sindacati, è responsabilizzare i dirigenti dei servizi di collocamento e di formazione professionale su obiettivi precisi di efficienza ed efficacia. Per esempio: numeri di persone collocate, tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Poi, il dirigente che non raggiunge gli obiettivi perde il posto, viene sostituito.
Solo sogni?