Reserve Charge, le proteste delle imprese: ci strangola
I 3,8 miliardi di lotta all’evasione inseriti tra le entrate dal governo Renzi nella recente legge di Stabilità per il 2015 hanno fatto alzare più di un sopracciglio, visto che non possono considerarsi entrate certe, tuttavia uno strumento concreto per rendere reale quel recupero pare essere stato pensato, il reserve charge.
Il problema è che allo stesso tempo vi è il pericolo che tale mossa possa strangolare la ripresa per molte aziende piccole e medie che dovrebbero essere le protagoniste.
Di cosa si tratta?
Il reserve charge è un meccanismo di inversione contabile per cui si prevede il trasferimento di una serie di obblighi relativi alle modalità con cui viene assolta l’IVA, dal cedente di beni/servizi all’acquirente.
In tal modo, l’acquirente risulta allo stesso tempo creditore e debitore del tributo, con obbligo di registrare la fattura sia nel registro degli acquisti, sia in quello delle fatture, compensandosi.
Fino ad oggi erano sottoposti al reserve charge le seguenti operazioni:
cessioni di oro industriale e da investimento (in quest’ultimo caso, solo se il cedente esercita l’opzione per l’imponibilità);
prestazioni di servizi effettuate da subappaltatori per imprese appaltatrici che svolgono attività di costruzione, o ad altre imprese subappaltatrici;
cessioni di fabbricati o porzioni di fabbricati per le quali il cedente abbia deciso di applicare l’IVA, mediante opzione nell’atto di vendita.
vendita di telefoni cellulari in grado di connettersi ad una rete munita di licenza e funzionanti a frequenze specifiche;
cessioni di dispositivi a circuito integrato, quali microprocessori e unità centrali di elaborazione prima della loro installazione in prodotti destinati a consumatori finali
La legge di Stabilità 2015 appunto allarga l’applicazione anche ai seguenti casi:
prestazioni di servizi di pulizia (anche degli studi professionali),
prestazioni di demolizione,
prestazioni di installazione di impianti,
prestazioni di completamento relative ad edifici,
trasferimenti di quote emissione di gas a effetto serra;
trasferimenti di altre unità che possono essere utilizzate dai gestori per conformarsi alla direttiva n. 2003/87/CE e di certificati relativi al gas e all’energia elettrica;
cessioni di gas e di energia elettrica a un soggetto passivo rivenditore.
L’applicazione era stata estesa anche alla grande distribuzione, ovvero la cessione di beni compiute nei confronti di ipermercati, supermercati, e discount alimentari.
L’applicazione della norma riguardo quest’ultimo è però stata bloccata e diventerà operativa solo in seguito all’approvazione della Commissione Europea, che sembra molto difficile arrivi, essendoci stati già segnali negativi dall’Europa.
Tutto ciò parte da una idea in principio buona, ovvero quella di tagliare un passaggio contabile (facendo pagare l’IVA dall’acquirente direttamente allo Stato), eliminando una fonte di evasione, che ammonta ora all’incirca a 40 miliardi annui, 2-3 dei quali sarebbero recuperati usando stime prudenziali.
Si tratta di piccole imprese del settore delle costruzioni e dei servizi alle imprese che di fatto spesso non versano l’IVA incassata, e talvolta scompaiono. Spesso tale evasione avviene a monte con la collaborazione degli acquirenti stessi che come sappiamo sono felici di avere uno “sconto” corrispondente all’IVA.
Tra l’altro il nuovo meccanismo della reserve charge funzionerebbe da cartina di tornasole per fare emergere l’evasione spesso collegata, quella legata ai contributi, IRAP, IRES, IRPEF, che fanno raggiungere all’evasione i 90 miliardi di euro annui.
Del resto se il reserve charge fosse applicato a tutte le operazioni commerciali al dettaglio e all’ingrosso, rientrerebbero circa 14 miliardi di euro, non solo i 2-3 attesi ora.
Tutto bene quindi? Non proprio.
Perchè rischia di mettere in pericolo la ripresa per molte aziende e ha sollevato molte proteste?
Innanzitutto se per l’acquirente la regola è quella decritta, dal punto di vista del fornitore non vi è quindi la possibilità di ricevere l’IVA assieme al pagamento, mentre rimane l’obbligo di versarla a sua volta ai propri fornitori, salvo poi riceverla come credito dalla Pubblica Amministrazione, con i tempi cui la PA ha abituato le aziende.
Si tratta di un vero e proprio drenaggio di liquidità normalmente disponibile per le aziende. e contando che passano anche 2 anni per il rimborso IVA da parte dello Stato verso le aziende, questa asimmetria forzata, ovvero la mancata ricezione dell’IVA dall’acquirente, ma l’obbligo di versamento verso i propri fornitori, con rimborso così ritardato, trasforma la reverse charge in un prestito forzoso verso lo Stato.
E’ quello che affermano gli imprenditori che più di altri si sono mobilitati contro il nuovo meccanismo, i fornitori della grande distribuzione, che rimangono in allarme anche se l’applicazione a loro della reserve charge pare essere molto in dubbio come abbiamo visto.
Confindustria Cuneo ha reso noto che 52% delle aziende coinvolte sostiene che in caso di applicazione delle nuove norme dovrà ridurre il personale, il 53% sarà forse costretto a ritardare il pagamento dei salari, mentre addirittura il 40% paventa una cessazione dell’attività. Il 46% afferma che sarà costretto a rifornirsi sui mercati esteri, invece di comprare materie prime italiane.
Alberto Balocco guida una delle aziende alimentari made in Italy che negli ultimi anni ha registrato tassi di crescita continua e investimenti importanti per sostenere la produzione, ed esprime grande preoccupazione per il provvedimento, soprattutto qualora la Commissione europa non bloccasse l’applicazione alla GDO.
“Si è calcolato che la stima annuale della liquidità che verrà così sottratta alle aziende che lavorano con la grande distribuzione si aggira attorno agli 8 miliardi di Euro!” afferma “Solo per l’Azienda Balocco, il provvedimento inciderebbe per 15 milioni di Euro ca. E’ tutta liquidità che viene tolta alle imprese impedendo loro di investire in sviluppo, lavoro e così via”
Per Balocco il reverse charge sarebbe “un prestito forzoso e senza interessi, concesso allo Stato da parte delle aziende che forniscono i beni di consumo alla distribuzione organizzata, le quali non incassando più l’IVA, le imprese sarebbero costrette a chiedere il rimborso che riceverebbero solo dopo anni di attesa e solo se in grado di fornire fideiussioni”.
Come si vede si torna a problemi molto comuni, ovvero i ritardi di pagamento della Pubblica Amministrazione. Vi è la volontà di adeguarsi agli standard europei in tutta una serie di meccanismi, lasciando però sempre indietro questo lato, in realtà vitale per le aziende, le tempistiche di pagamento.
Un netto cambiamento in questo aspetto renderebbe più sopportabili gli inevitabili disagi di una mossa che d’altro canto appare indispensabile come strumento contro la piaga dell’evasione.