Riforma delle pensioni: con le modifiche alla legge Fornero piove sempre sul bagnato?
“Una riforma non deve essere per forza a costo zero”, ha detto il ministro del lavoro e della previdenza sociale Poletti in una recente intervista al Corriere: “La flessibilità delle pensioni non deve essere per forza a costo zero, le penalizzazioni non possono essere insostenibili. Bisognerà fare un ragionamento complessivo nel governo, tenendo a mente che quello non è solo un intervento sulle pensioni. E che, come obiettivo laterale ma non meno importante, ha quello di aiutare l’occupazione giovanile“, perchè, ha continuato, ” tenere le persone dentro le aziende è uno dei fattori che impedisce ai giovani di trovare un lavoro”
Questa la posizione del ministro sul tema, non nuovo peraltro, di una modifica della riforma Fornero che permetta di andare in pensione prima, con una certa penalizzazione. Abbiamo già parlato del conflitto di idee che vi è tra il presidente della Commissione Lavoro alla Camera Cesare Damiano, del resto predecessore di Poletti al ministero sotto l’ultimo governo Prodi (2006-2008) e il presidente dell’INPS, il professore liberal Boeri.
Riforma delle pensioni, i costi passati e futuri
Per Poletti un intervento sul tema non deve essere a costo zero, ma infatti le pensioni italiane non sono mai state a costo zero per la società e lo Stato, come vediamo di seguito, e come si sa, l’Italia è il Paese in cui la spesa pensionistica ha la percentuale più grande del PIL
Risorse quindi sottratte ad altri capitoli, in primis il welfare, l’assistenza sociale, o la formazione, soprattutto per i disoccupati.
La riforma Fornero del 2011 come sappiamo ha fermato la salita inesorabile della spesa pensionistica,ma non ha potuto risolvere il problema, che è ancora il punto centrale della politica economica e finanziaria per l’Italia negli anni futuri.
Infatti le previsioni di riduzione dell’impatto della spesa pensionistica dipendono naturalmente dall’andamento dell’economia del Paese, se il PIL, il denominatore, non cresce come previsto, anche l’impatto della spesa per le pensioni cambia, e in peggio.
Si veda la differenza tra questo grafico del 2012:
e questo del 2015:
Come si vede le previsioni di discesa della spesa pensionistica sono state ridimensionate, se la spesa doveva scendere quasi al 14% nei prossimi 15 anni, ora si prevede che rimarrà sul 15%.
Si noti però anche la netta differenza con le curve della spesa in caso di mancate riforme: il peso sarebbe stato tra il 16% e il 18% per almeno una trentina d’anni, per un totale di almeno 50 miliardi di spesa in più, al PIL attuale.
Quindi si trattava di riforme assolutamente necessarie, ma non sufficienti, visto che rimaniamo il Paese europeo con il peso delle pensioni più alto, e ancora secondo diversi calcoli, come quelli del Melbourne Mercer Global Pension Index, tra i Paesi con la spesa pensionistica più insostenibile
Principalmente il motivo di questo punteggio molto basso, il più basso, nella sostenibilità (13,4 contro una media di 49,7), sta nella demografia italiana, essendo uno dei Paesi con maggiore proporzione di anziani al mondo, ma anche nel fatto che siamo tra quelli con meno piani pensionistici privati attivati, solo il 14% dei lavoratori ci ha infatti pensato.
Riforma delle pensioni per i pensionati di oggi, e quelli di domani e dopodomani?
Come si vede di costi per i pensionati di oggi se ne stanno sostenendo, e gli eventuali beneficiari della modifica alla Fornero di cui ora si parla sono comunque della stessa generazione di quelli che ora stanno andando in pensione, ovvero coloro che hanno cominciato a lavorare prima del 1978, e che quindi godranno di una pensione quasi totalmente retributiva, fino al 30% più alta di quella di cui lavoratori con stesso stipendio e anzianità godranno tra qualche anno, dovendo usare solo il metodo contributivo
Considerando anche che il tasso di sostituzione pensioni/lavoro (il rapporto tra la prima pensione e l’ultimo stipendio) crollerà nei prossimi anni dai livelli attuali che sono tra i più alti al mondo
Si sta quindi discutendo se la penalizzazione debba essere del 2% annuo, come vorrebbe Damiano, o del 3%, come ipotizza Poletti, per ogni anno di anticipo della pensione, per esempio dai 66 ai 63 anni. C’è anche l’ipotesi che la penalizzazione cresca progressivamente con il numero degli anni di anticipo: per chi esce un anno prima il taglio è del 2%, per chi esce due anni prima del 5%, per chi anticipa di tre anni il taglio arriva all’8%.
L’ipotesi meno generosa costerebbe sui 700 milioni di euro, molto meno degli 8 miliardi calcolati dall’INPS per la proposta Damiano (che contestava però tale stima), ma è probabile che la soluzione finale sarà nel mezzo.
E in ogni caso anche così sommando questa modifica alla legge Fornero con il risarcimento per i pensionati che avevano subito il blocco della pensione poi giudicato illegittimo dalla Consulta, la spesa totale sarebbe di 1,3-1,7 miliardi per lo Stato, mentre fino a poco tempo si fa si parlava di finanziare tagli di imposta sul lavoro o risorse per il welfare proprio con un prelevamento della parte eccedente la mera componente contributiva delle pensioni più alte, per ricavare circa 4 miliardi, era la proposta Boeri poi caduta nel dimenticatoio.
Da 4 miliardi a favore dei pensionati di domani a un prelevamento di 1,3-1,7 miliardi a favore di chi già ha ricevuto molto.
Riforma delle pensioni, a riposo prima per creare lavoro?
Uno degli argomenti di Poletti, come abbiamo visto, è quello classico della CGIL per cui si può creare più lavoro facendo andare in pensione prima gli anziani. Forse questo pensiero può trovare apparentemente conforto dagli ultimi dati sull’occupazione, che se osservati attentamente scoraggiano un po’ l’ottimismo che si sta diffondendo sulla ripresa. Infatti come fatto giustamente osservare da Thomas Manfredi l’aumento occupazionale che si è verificato dai minimi dell’ultimo trimestre 2014 è stato dovuto in massima parte all’aumento di occupati dai 45 anni in poi, soprattutto tra i 55 e i 65 anni. Non si tratta di nuove assunzioni, ma di lavoratori che non vanno in pensione come avveniva un tempo e aumentano la propria concentrazione nel mondo del lavoro.
Si veda di seguito, anche la differenza con la Spagna:
La fascia più delicata e più in difficoltà è stata ancora una volta quella tra i 15 e i 44 anni, che hanno visto anche in questo periodo di “ripresa” una perdita di occupazione, limitatasi poi nel periodo post Jobs Act.
Si deve quindi mandare prima in pensione i più anziani?
In realtà l’esempio di altri Paesi con età di pensionamento analoga alla nostra dice il contrario, e lo si può verificare dal grafico di seguito che indica su dati Eurostat la correlazione tra l’occupazione dei giovani, tra i 25 e i 34 anni e quella dei più anziani tra i 55 e i 64 anni
L’occupazione dei giovani (molto meglio considerare i 25-34enni, la categoria dei 15-24enni è in maggioranza a scuola e in università) va di pari passo con quella dei 50enni e 60enni, non in senso opposto come molti ritengono.
Quindi è evidente che piuttosto manca una spinta dell’economia, una crescita che permetta l’occupazione anche delle fasce di età più giovani, che non avrebbero beneficio da una modifica alla riforma delle pensioni, che anzi costerebbe miliardi di euro, da aggiungersi al fardello delle pensioni attuali, un vero e proprio costo opportunità per lo Stato, che non potrebbe impiegare quelle risorse per esempio nella formazione e nel ricollocamento, come avviene nel resto d’Europa, o nel prolungamento della decontribuzione per i nuovi assunti, in scadenza a fine 2015