Riforma del Senato, emendare o non emendare (l’articolo 2)?
Ancora una volta, a quanto pare, la battaglia sarà sul Regolamento. La questione dell’ammissibilità degli emendamenti all’art. 2 della riforma costituzionale – quello che introduce il Senato non elettivo – certamente ha alle spalle un’aspra e logorante battaglia politica, che coinvolge innanzitutto il partito del Presidente del Consiglio; la decisione sul punto, tuttavia, si giocherà tutta sulle disposizioni che regolano il procedimento di revisione costituzionale. Non a caso, è già iniziato un duello fine, a colpi di testi, interpretazioni e precedenti (oltre che dei consueti retroscena), che dovrà concludersi a breve.
Articolo 2 Riforma Senato, perché rivotare?
La situazione pare semplice, ma è insidiosa. Palazzo Madama, il 4 agosto 2014, aveva completato la prima lettura del disegno di legge costituzionale, approvando pure il testo dell’art. 2, che sostituisce l’art. 57 della Costituzione relativo alla composizione del Senato: con quel testo, l’assemblea non era più eletta direttamente dai cittadini, con la quasi totalità dei membri a rappresentare le istituzioni territoriali. Alla Camera il testo è stato approvato con una minima variazione: al comma 5 del nuovo art. 57 si dice che «La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti», e non più «nei quali sono stati eletti». La modifica è microscopica, ma c’è: per questo, sicuramente l’aula presieduta da Pietro Grasso dovrà esprimersi di nuovo su quell’articolo.
Su ciò nessuno ha dubbi: il problema, casomai, è l’ampiezza della nuova discussione. Renzi e i suoi si rifanno al Regolamento del Senato: per l’art. 121, nell’esame di un disegno di legge costituzionale, se il testo che torna al Senato è stato nel frattempo modificato dalla Camera, si applica l’art. 104 dello stesso Regolamento, dettato per il procedimento delle leggi ordinarie. L’art. 104 prevede che, in caso di emendamenti approvati dalla Camera, «il Senato discute e delibera soltanto sulle modificazioni apportate dalla Camera […]. Nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla Camera dei deputati». Tradotto: sono ammissibili solo gli emendamenti che riguardino direttamente la modifica di «nei quali» in «dai quali», non quelli volti a reintrodurre una forma di elezione diretta del Senato.
Le posizioni a confronto
Tutto semplice e chiaro? Non proprio, visto che il diritto parlamentare non è fatto solo di regole scritte, ma anche (e soprattutto) di interpretazioni, prassi e precedenti: il quadro che ne risulta non sembra avere un’unica lettura e il fronte di coloro che chiedono di ammettere comunque tutti gli emendamenti all’articolo 2, visto che la disposizione dovrà comunque essere in parte discussa, è tutto meno che inconsistente. Scegliere una o l’altra interpretazione, ovviamente, può cambiare del tutto il destino della riforma costituzionale in corso; gli stessi esperti di diritto costituzionale, peraltro, non sono concordi e, interpellati dai vari media, snocciolano risposte diverse tra loro, se non addirittura opposte.
Per dire, Alessandro Pace, per anni presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, si è espresso nettamente a favore dell’ammissibilità degli emendamenti relativi all’articolo 2, appoggiandosi al precedente dell’ultimo ritocco costituzionale della Prima Repubblica: la riforma dell’immunità parlamentare nel 1993. All’epoca la Giunta per il Regolamento della Camera – il presidente era Giorgio Napolitano – dovette affrontare una questione delicata: si discuteva infatti dell’ammissibilità di alcuni emendamenti volti a sopprimere interamente dei commi su cui il precedente passaggio parlamentare era intervenuto con modifiche, travolgendo però anche le parti non toccate dall’altra Camera (particolare che, in precedenza, aveva portato a ritenere non ammissibili emendamenti interamente soppressivi).
All’epoca la Giunta approvò un parere favorevole all’ammissibilità di tali emendamenti, data tra l’altro “la particolare disciplina del procedimento di revisione costituzionale”: nel resoconto del dibattito si legge che il precedente orientamento, valido per le leggi ordinarie, non sembrava “altrettanto […] convincente qualora sia trasferit[o] nell’esame di un progetto di legge costituzionale”. Basterebbe ciò, per Pace, a ritenere ammissibili gli emendamenti all’art. 2: allora si derogò al Regolamento per ammettere emendamenti interamente soppressivi, a maggior ragione lo si potrebbe fare ora con degli emendamenti modificativi, ritenuti meno “invasivi” rispetto a quelli soppressivi, proprio per l’assoluta particolarità del procedimento di revisione costituzionale.
La posizione è ben diversa da quella, espressa già nei giorni precedenti, da Stefano Ceccanti, docente di diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza di Roma, ex senatore Pd e costantemente indicato dai media come “vicino a Renzi”. Durante la sua audizione presso la commissione Affari costituzionali del Senato, rispondendo ad alcune domande, aveva già escluso categoricamente la possibilità di modificare l’articolo 2 nelle parti non toccate dalla Camera (in particolare in quelle che non prevedono l’elezione diretta dei senatori) sia per l’espressa previsione in tal senso dell’art. 104 del Regolamento di Palazzo Madama, sia per l’impossibilità di qualificare gli emendamenti che puntano al Senato elettivo come “in diretta correlazione con le modificazioni della Camera”.
Non stupisce dunque che, quando ha iniziato a circolare discrezione secondo la quale Grasso sarebbe stato orientato ad ammettere tutti gli emendamenti relativi all’articolo 2, sia arrivata piuttosto in fretta la dichiarazione in senso contrario di Ceccanti: per lui, se il presidente del Senato decidesse per l’ammissibilità, “farebbe uno sbaglio”. Uno sbaglio che non piacerebbe senz’altro al Presidente del Consiglio, a dispetto dei numeri sui quali è convinto di poter contare.
La tesi di Pace ha un certo fascino, se non altro perché valorizza il percorso di revisione costituzionale, dando peso al dissenso (purché abbia un minimo di consistenza) e sottolineando che la modifica della legge fondamentale non deve essere “a colpi di maggioranza”, ma il più possibile condivisa. Il riferimento al precedente del 1993, però, non convince in pieno: è rispettabile il principio che se ne trae, ma non si può trascurare che – è sempre il resoconto a farlo emergere – gli emendamenti ammessi allora puntavano a sopprimere per intero dei commi che, nella precedente lettura da parte dell’altro ramo del Parlamento, erano stati profondamente modificati; sembrava dunque poco ragionevole cassare un emendamento solo perché, oltre alle frasi effettivamente cambiate, voleva eliminare anche le poche parole su cui nel passaggio precedente non si era intervenuti.
Questa volta, invece, la modifica apportata dalla Camera è di portata davvero ridotta e non si può certo parlare di “rilevanti modificazioni”, come aveva invece fatto il parere di 22 anni fa. Il problema alla base, per alcuni, è più grave, tant’è che – nella stessa intervista alla Repubblica da cui si è tratta l’opinione precedente – il professor Pace parla espressamente di probabile incostituzionalità del testo ora dedicato al Senato: conservare almeno in parte la funzione legislativa a un Senato non eletto dal popolo, infatti, secondo il costituzionalista cozzerebbe contro il principio di sovranità popolare, ribadito di recente dalla sentenza n. 1/2014 della Consulta (quella che ha demolito i cardini del Porcellum) e che nemmeno una legge di revisione costituzionale potrebbe violare. La posizione è interessante (anche per immaginare il percorso che porterebbe all’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità), ma è più urgente risolvere il “dilemma degli emendamenti”.
Di chi è la modifica alla Camera?
Di certo non si sarebbe arrivati a questo punto senza quella micromodifica dell’art. 2 del ddl costituzionale a Montecitorio: anche se venissero considerati inammissibili tutti gli emendamenti (specie quelli sul Senato elettivo), l’aula potrebbe ugualmente votare contro l’approvazione dell’art. 2 nel suo complesso e in quel caso la composizione del Senato resterebbe quella attuale (discorso diverso per le sue competenze). Non essendo però possibile lo scrutinio segreto, il voto dovrebbe avvenire alla luce del sole, senza possibilità per i franchi tiratori di agire.
Ma chi è stato a modificare alla Camera l’art. 2, consentendo di fatto questa situazione? L’emendamento in questione – il 2.700 – è stato approvato il 22 gennaio dall’aula della Camera ed è stato presentato dalla stessa commissione Affari costituzionali. Lì siedono tanto fedelissimi di Renzi (a partire da Matteo Richetti ed Ettore Rosato), come pure Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo e Alfredo D’Attorre. Non è dato sapere esattamente chi ha proposto la modifica, che non è nemmeno stata illustrata in aula: dal resoconto stenografico risultano solo i pareri favorevoli del relatore di maggioranza (Francesco Paolo Sisto, Fi), del sottosegretario Ivan Scalfarotto per il Governo, nonché dei relatori di minoranza Matteo Bragantini (Misto, ex leghista vicino a Tosi), Danilo Toninelli (M5S) e Stefano Quaranta (Sel).
Alla fine, su 456 votanti, i contrari sono stati solo tre (Maurizio Bianconi e Pietro Laffranco di Forza Italia, Ivan Catalano del gruppo di Scelta civica), tutti gli altri hanno votato a favore. Compresi, ovviamente, Scalfarotto, Richetti e Carbone, certamente vicini a Renzi. Chissà se, nel pigiare il bottone verde della loro pulsantiera a Montecitorio, si rendevano conto di cosa avrebbe potuto produrre il loro voto a Palazzo Madama…