Attentato Parigi: caro Hollande, ora ti (vi) tocca scegliere
La scia di sangue e paura lasciata dall’attacco terroristico combinato che ha sconvolto Parigi nella serata del 13 novembre (qui tutti i dettagli) è destinata a rappresentare un serio spartiacque, un monito per una sorta di riflessione allo specchio da parte di un Occidente ad oggi sin troppo titubante, persino nei commenti a caldo a seguito della carneficina. Un Occidente chiamato ora a decidere – definitivamente ed improrogabilmente – quale strada intraprendere nelle strategie di politica estera da adottare in Medio Oriente e, nello specifico, in Siria.
Attentato Parigi: il bivio di Hollande e dell’Occidente
L’attacco al cuore di Parigi non può sorprendere per diversi motivi, a partire dall’indimenticabile antipasto rappresentato dall’assalto di 10 mesi fa al Charlie Hebdo e alla capitale francese – nulla più che un’avvisaglia, se comparata alle modalità di azione e allo strascico di vite umane lasciate dagli attentati del 13 novembre – per poi passare alle ultime mosse di politica estera da parte dell’Eliseo, con la decisione di prender parte ai bombardamenti in Siria.
Al tempo stesso, non meraviglia nemmeno l’ipotetica provenienza degli attentatori. Che si tratti di mediorientali, di francesi nati nelle banlieues – luoghi in cui la rabbia sociale cova da fin troppo tempo, rappresentando terreno fertile per la propaganda fondamentalista – o, ancora, di stragisti provenienti dal vicino Belgio, il Paese europeo con la più alta concentrazione di jihadisti.
Ciò che invece non può più essere tollerato è il senso di impotenza mostrato dall’Occidente. O meglio, l’incapacità di scegliere una strategia chiara e lineare. Basata su un ordine gerarchico ben preciso di priorità da affrontare.
Attentato Parigi: l’Occidente, Assad e l’ISIS
“Le politiche sbagliate dell’Occidente hanno condotto alla situazione attuale”. Questo il gelido giudizio di Bashar al Assad, presidente di una Siria martoriata da oltre 4 anni di guerra civile e territorio che ha dato i natali al mostro chiamato ISIS. Giusto o sbagliato che sia, il commento dovrebbe porre seri interrogativi su quanto compiuto ad oggi dall’Occidente nel contesto mediorientale.
Al di là delle teorie complottiste (“ISIS creazione degli USA”, e roba simile), è innegabile che il desiderio – in primis da parte degli USA, ma anche della stessa Francia e non solo – di liberarsi di un personaggio per loro scomodo come Assad abbia potuto influenzare l’iniziale approccio “molle” nei confronti di una realtà in crescita (l’ISIS, appunto), sperando di sfruttarne la furia contro il regime di Damasco – abbinata a quella delle milizie ribelli, spalleggiate dall’Occidente e in cui trovano spazio persino gruppi come il Fronte Al Nusra, strettamente legato ai fondamentalisti di Al Qaeda – per indebolire ulteriormente il presidente siriano ed agevolare un rapido (e, perché no, indolore) cambio al vertice del Paese.
Una strategia evidentemente fallimentare, vista la situazione apocalittica sviluppatasi in Siria, con un regime colpito ma non affondato ed un califfato vivo e vegeto, terreno fertile per quell’emergenza migranti che sta affliggendo l’Europa da mesi. Un risultato che (ironia della sorte) trova le sue radici in scelte ormai decennali – l’errata gestione del post Saddam in Iraq e la frettolosa liquidazione dell’esercito Baath, i cui vertici sono oggi confluiti in massa proprio nelle file del califfato – e che ha contribuito ad alimentare ulteriormente un atteggiamento titubante che continua a perpetuarsi ancora oggi.
Alla luce di ciò, sembra chiaro come il problema non sia più risolvibile senza una scelta netta tra Assad e l’ISIS. Più facile a dirsi che a farsi – visto lo stallo geopolitico creatosi ed ormai solidificatosi – ma non per questo procrastinabile a lungo.
Lo stallo geopolitico
La scelta dell’Occidente di concentrarsi principalmente – e per molto tempo – nella lotta ad Assad è stata (ed è ancora oggi) contrastata dalla ferma posizione (anche in seno all’ONU) di attori rilevanti come Russia, Iran e Cina. E le ultime vicende di Parigi danno ancor più forza alla posizione di chi (come Vladimir Putin) continua a ritenere prioritaria la creazione di un fronte comune per combattere il fondamentalismo. Tanto più nel momento in cui il presidente russo è stato il primo ad evidenziare la disponibilità di Assad ad una nuova fase di apertura delle istituzioni siriane alle opposizioni.
Ma l’eventuale “inversione ad U” – mettendo momentaneamente in freezer la “questione Assad” e concentrandosi esclusivamente sulla lotta all’ISIS – non è facile come sembra. Perché tale logica si scontra con attori che potrebbero non essere per nulla intenzionati a congelare la questione relativa all’attuale regime di Damasco. E’ il caso di Arabia Saudita e Qatar, potenze petrolifere (e sunnite) fermamente convinte – per motivi religiosi, politici, ma soprattutto economici – della necessità di far fuori il regime sciita alawita siriano in tempi brevi. Senza dimenticare la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ossessionato dalla necessità di soffocare definitivamente le istanze indipendentiste curde – alimentate sia dai successi contro l’ISIS che da una possibile progressiva convergenza tra i guerriglieri e il regime di Damasco – e di far fuori l’odiato presidente siriano.
Trovare la quadratura del cerchio – che non potrà tralasciare, in seguito all’ipotetica vittoria sul califfato, anche un’eventuale exit strategy per Assad, indolore o meno – non sarà facile. Ma oggi come non mai l’Occidente è chiamato a compiere una scelta. Chiara e definitiva, da portare avanti senza strappi né tentennamenti. Per vincere un immobilismo che l’attanaglia da fin troppo tempo.