Dentro l’Isis: il racconto della nuova strategia jihadista
Dentro l’Isis: la storia di Abu Khaled, nome fittizio, è stata raccontata da Michael Weiss sul The Daily Beast.Per tre lunghi giorni di fine ottobre, il giornalista americano ha ascoltato il “disertore” delle forze di sicurezza dello Stato Islamico nei café, nei ristoranti, nelle vie di Istanbul. “Io sono musulmano, ma non sono molto religioso, non credo nella Sharia” ha messo in chiaro quasi subito Abu Khaled ma, un giorno “mi sono guardato allo specchio e non mi sono più riconosciuto: c’era qualcuno nella mia testa che non ero io”. Abu Khaled non ricalca perfettamente il profilo dell’estremista, tantomeno dell’estremista islamico: non è giovane, non è portato per il “martirio”, è un siriano di mezz’età, poliglotta e ben istruito. Si è unito all’Isis il 19 ottobre del 2014: erano appena stati intensificati i bombardamenti su Raqqa, la capitale del Califfato, dalla coalizione Usa-led.
Dentro l’Isis: il racconto della nuova strategia jihadista
Per lui il presidente siriano Bashar al Assad è un “tiranno” che un “complotto” guidato da Russia e Iran, ma vede anche gli Stati Uniti come complici, vorrebbe mantenere al potere: “come si può spiegare altrimenti che gli Usa fanno la guerra solo contro i sunniti, senza minimamente toccare un regime alawita colpevole di omicidi di massa e le sue milizie sciite appoggiate dall’Iran?”. Ma non è stata solo questa “convinzione” a spingere Abu Khaled tra le braccia degli jihadisti: era “curioso”, voleva “vivere un’avventura”.
Si avvicinò agli uomini armati che presidiavano un posto di blocco presso la città di Tal Abyad, al confine turco-siriano, che allora era ancora in mano al Daesh. Gli chiesero dove stava andando e Abu Khaled rispose Raqqa, vollero sapere che andava a fare li, “risposi che volevo unirmi all’Isis: controllarono il mio bagaglio”. Una volta arrivato a destinazione, visto che proveniva da un “paese straniero” e non da una zona del Califfato, prima di essere addestrato, è stato “naturalizzato”. Gli chiesero perché voleva diventare un “guerriero santo”, disse qualcosa di superficiale “sull’uccidere gli infedeli; non dovetti aggiungere altro”.
Poi cominciò il vero e proprio addestramento, o meglio, l’indottrinamento, “un vero e proprio lavaggio del cervello”. Per due settimane, gli venne insegnato “come odiare la gente” da giovani uomini, nessuno dei quali era siriano. Nelle prime settimane di militanza incontrò jihadisti provenienti da tutto il mondo: “americani, russi, tedeschi, olandesi, francesi, venezuelani, di Trinidad e Tobago”. Abu Khaled parla il francese e l’inglese oltre l’arabo, dunque venne utilizzato come “interprete”.
Tutto andava bene, si respirava “una certa aria di invincibilità”, poi arrivò Kobane, una sconfitta simbolicamente gravissima. In quel caso “i curdi, appoggiati dagli americani, hanno combattuto bene, mentre l’Isis ha mandato 4-5mila uomini al macello, senza supporto, senza strategia”. Da quel momento in poi qualcosa è cambiato: “prima arrivavano ogni giorno 3mila aspiranti combattenti stranieri. Voglio dire proprio ogni giorno”, ora il loro numero è calato fino a soli 50, 60 uomini al giorno.
La strategia dell’Isis doveva cambiare e, infatti, è cambiata. “Questo deficit di adesioni ha portato ha un attento ripensamento della migliore strategia per impiegare gli affiliati al di fuori della Siria e dall’Iraq – riferisce Abu Khaled – il messaggio è diventato per servire la causa non devi venire qui e ora la leadership dell’Isis sta incoraggiando la nascita di cellule terroristiche dormienti in tutto il mondo”. Insomma, “rimanete nei vostri paesi e combattete li, uccidete cittadini, fate saltare in aria edifici”. Anche molti combattenti giunti in Siria nel corso del tempo “lasciano Al Dawla (lo “Stato”, ndr) per ritornare nelle nazione d’origine”.