Se non votare è lecito, perché indurre all’astensione è reato?
Un inquadramento del reato di induzione all’astensione e dei quorum dei referendum, dall’Assemblea Costituente alla recente Riforma Boschi.
Ad ogni tornata referendaria, sistematicamente a partire da quella del 1990 in poi, proliferano gli inviti all'”andare al mare” o genericamente a “fare dell’altro”; insomma: ad astenersi per far sì che i referendum non raggiungano il quorum dei votanti, necessario secondo l’Articolo 75 della Costituzione della Repubblica Italiana per rendere valida la tornata elettorale. Sulla falsariga di un articolo scritto dieci anni fa da Andrea Morrone, professore straordinario di diritto costituzionale dell’Università di Bologna, si cercherà di chiarire alcune questioni.
Il quorum secondo i Padri Costituenti
Originariamente, nel dibattito dell’Assemblea Costituente, i Padri si divisero sull’opportunità di inserire o meno una soglia di validità. Il socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti, ad esempio, riteneva che fosse sufficiente stabilire la quota di firme necessarie per dar vita all’iter referendario: “Chi non vota non può pesare sulle deliberazioni del corpo elettorale. È vero che l’assenza di una grande parte del corpo elettorale dal referendum toglie a questo molto del suo valore; ma a tale inconveniente si rimedia col fissare una quota elevata di elettori per la richiesta di referendum”. Ci fu pure chi, come Ruggero Grieco, sosteneva che qualora si fosse stabilito un quorum per il referendum si sarebbe dovuto fare altrettanto anche per le altre consultazioni elettorali. E anche il suo collega Umberto Terracini, che presiedeva la Costituente, non capiva perché “un deputato eletto col voto del trenta per cento degli elettori debba essere riconosciuto come capace di esprimere la volontà di un determinato raggruppamento della popolazione, mentre poi quando il trenta per cento di quel gruppo popolare esprime direttamente la sua volontà, questa non dovrebbe avere valore”. Ad ogni modo si stabilì un quorum del 50% + 1 degli elettori. Tale soglia vige solo per i referendum abrogativi e non per quelli confermativi di leggi di modifica costituzionale; l’apparente paradosso va sciolto con la presupposizione che le leggi fossero già di per sé perfette, poiché il Parlamento era molto rappresentativo dell’elettorato italiano, sia per via del sistema proporzionale, sia per la partecipazione pressoché totale alle elezioni politiche. Quindi si dava per scontato che il Parlamento godesse di piena legittimità e vi si riconoscessero anche e soprattutto i non votanti, specie se per giustificati motivi personali. Come osservava il professor Morrone: “Di fronte a una legge, approvata dalla maggioranza politica, l’abrogazione popolare poteva essere consentita solo se a votare fosse andata una maggioranza uguale e contraria. Il quorum, dunque, non per legittimare l’astensione ma deliberatamente per contrastarla“. Comunque sia, nella medesima Carta Costituzionale, il secondo comma dell’Articolo 48 definì l’esercizio del voto un “dovere civico”, e ciò – come concorda la giurisprudenza – vale per tutti i tipi di consultazioni elettorali, compresi i referendum.
Il dovere civico di votare
Al medesimo articolo della Costituzione si richiamava il Testo Unico delle leggi elettorali, D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, quando all’articolo 4 parlava di “un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese”. Oltre a ciò, l’articolo 115 (soppresso nel 1993) prevedeva l’onere per l’elettore che non avesse esercitato il diritto di voto di giustificare al sindaco il proprio comportamento, pena la pubblica esposizione per un mese del proprio nome nell’albo comunale e per cinque anni la menzione “non ha votato” nei certificati di buona condotta che, per l’assunzione nei pubblici uffici, poteva costare una penalizzazione rispetto ad un altro candidato a parità di requisiti. Oggi senza dubbio è “lecito” anche non votare, differentemente da alcuni, pochi, Stati in cui è obbligatorio votare, e anzi se non lo si fa si viene multati, come ad esempio per le elezioni federali in Australia (dove chi non vota deve pagare 20 dollari australiani) o nel cantone svizzero di Sciaffusa (lì l’ammenda è di 6 franchi). In Italia, pur non vigendo più alcun tipo di sanzione per perseguire i “non votanti”, resta però sancito dalla Costituzione il dovere civico di recarsi alle urne.
Circoscrivendo il reato di induzione all’astensione
Dal punto di vista della libertà di espressione, va detto che in generale è legittimo invitare ad astenersi perché ciò rientra “nella più ampia libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione”, come rilevava Morrone. Tuttavia questo non vale per “il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare”, il quale, “abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione“. In tal caso, il medesimo Testo Unico all’articolo 98 prevede che l’autore di siffatto reato venga “punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 309€ a 2.065€”. Ciò vale anche per i referendum? La risposta è sì, perché la legge che disciplina tale istituto, la n. 352/1970, all’articolo 51 afferma che “le sanzioni previste dagli articoli 96, 97 e 98 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti negli articoli stessi contemplati riguardino le firme per richiesta di referendum o per proposte di leggi, o voti o astensioni di voto relativamente ai referendum“. Ad ogni modo, dichiarare semplicemente che non si andrà a votare o augurarsi il fallimento di un referendum non costituisce reato, perché il reato si configura solo se vi è abuso delle attribuzioni del pubblico ufficiale e se egli agisce nell’esercizio delle stesse, come ad esempio un sindaco che emanasse un’ordinanza ad hoc per ostacolare l’accesso alle urne ai suoi concittadini. Se non fosse ancora chiaro, lo spiega forse meglio il costituzionalista Stefano Ceccanti:
Quando un membro del governo o del Parlamento esprime una posizione politica favorevole all’astensione esprime di fatto una posizione politica. E non è detto che in quel momento si possa configurare come un pubblico ufficiale. In ogni caso non sta abusando del suo potere. Altra cosa sarebbe se il pubblico ufficiale sabotasse i registri elettorali o non facesse installare i seggi. In quel caso sì che commetterebbe un reato. Ma l’opinione pro astensione è un’opinione politica e questo è insindacabile.
Per questo motivo, le denunce che il M5S ha annunciato nei confronti della sottosegretaria Teresa Bellanova e il Partito Radicale nei confronti di Renzi – per aver entrambi invitato a non votare al referendum di domenica – sono destinate a cadere nel vuoto perché non sembra ricorrere l’abuso del ruolo istituzionale da essi ricoperto. L’origine di questo reato comunque sia è molto antica e risale a Zanardelli, ai tempi in cui in genere era il clero cattolico a mettersi di traverso – talvolta proprio fisicamente – per impedire lo svolgimento delle elezioni organizzate da quell’autorità civile che, dopo la breccia di Porta Pia, avrebbe usurpato del potere temporale la Chiesa. Anche per contrastare il celebre “non expedit” papale, la legge include esplicitamente tra i soggetti perseguibili il “ministro di qualsiasi culto” e prevede una pena relativamente elevata, ma non ci risulta che negli ultimi decenni siano mai state comminate sanzioni per questo reato.
L'”astensionismo strategico”
Secondo il costituzionalista Michele Ainis, l’astensione sarebbe una vera e propria “frode della Costituzione”, mentre altri giuristi hanno ritenuto questo comportamento, seppur lecito, gravemente scorretto dal punto di vista democratico e altri ancora lo ammettono solo a scopo di ostruzionismo. La maggior parte degli esperti, tuttavia – e con essi l’Ufficio centrale per il referendum e la Corte Costituzionale con la sentenza 33 del 2000 – ritiene l’astensione non equiparabile ad un voto contrario; nello specifico, si parlava di un referendum che poteva essere riproposto in quanto non aveva raggiunto il quorum, mentre se fosse stato valido e avessero prevalso i “no” non sarebbe stato possibile votare sul medesimo punto a distanza di poco tempo. Semplicemente viene a mancare il “numero legale”, con conseguente spreco di denaro pubblico per nulla, poiché il risultato (il rapporto tra i sì e i no) non viene neppure considerato se non si supera il quorum. Ai fini della validità dei referendum, tuttavia, i detrattori nell’ultimo ventennio hanno incessantemente fatto ricorso all’astensionismo strategico come arma per boicottare i quesiti referendari. E, con l’astensione “fisiologica” crescente – basti pensare che alle elezioni europee del 2014 ha votato appena il 57,22% degli aventi diritto – è risultato sempre più facile per i sostenitori dello status quo iscrivere tra i propri ranghi i “non votanti”. Per smarcarsi da tale atteggiamento, in occasione del referendum di domenica non sono pochi coloro che, lealmente, chiedono di affrontare ad armi pari i sostenitori del “sì”: Romano Prodi, ma anche Pierluigi Bersani e il governatore della Sardegna Pigliaru, hanno detto che andranno a votare “no”. È notizia recente che anche i presidenti di Camera e Senato hanno richiamato espressamente il dovere civico di votare, a prescindere dalla scelta.
La Riforma Boschi abbassa il quorum
Forse si sta già entrando nell’ottica della cosiddetta “Riforma Boschi” che riscrive l’Articolo 75 della Costituzione prevedendo un quorum più basso qualora la proposta referendaria fosse avanzata da 800.000 elettori: basterebbe “la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati” (quindi, ad oggi, il 37,6% degli iscritti) per rendere valida la consultazione referendaria. Al di là delle considerazioni di merito sulla modifica costituzionale nel suo complesso, questa novità sembra un ottimo modo per neutralizzare il peso di coloro che, delusi nella maniera più assoluta per lo stato di cose presenti, hanno fatto ormai del non voto una scelta definitiva. Pertanto, anche se non si superasse il vigente quorum per i referendum di domenica 17 aprile, se si raggiungesse il 37,6% il risultato dovrebbe essere preso in seria considerazione dal Governo: con la nuova riforma, quell’esito sarebbe da considerarsi assolutamente valido.