Elezioni Filippine: ecco perché sono importanti
Elezioni Filippine: oltre 18mila i seggi in palio, il paese è chiamato a rinnovare sia gli organi nazionali che locali. I 54 milioni di elettori filippini voteranno anche il presidente, subentrerà all’uscente Benigno Aquino che ha governato negli ultimi 6 anni. La costituzione prevede un solo turno, di solito ci vogliono un paio di giorni per conoscere i risultati definitivi (le Filippine sono un arcipelago di più di 7mila isole). Alla fine, dovrebbe spuntarla “il giustiziere” Rodrigo Duterte: i sondaggi più recenti gli consegnano 10 punti di vantaggio rispetto alla senatrice Grace Poe – potrebbe bastargli poco più del 30% dei consensi (Aquino vinse con il 42%). I primi exit poll lo attestano in vantaggio di 600mila voti.
Looking good for “Let’s fix this country.” #PhilippinesElection pic.twitter.com/qI8qeIIkqR
— Bradley Steffens (@SteffensBradley) 9 maggio 2016
Elezioni Filippine: ecco perché sono importanti
Duterte, 71enne ex magistrato, è stato sindaco della città di Davao per 2 decenni: alcuni gruppi per i diritti umani lo accusano di aver mobilitato degli “squadroni della morte” per uccidere oltre un migliaio di presunti criminali. Tali argomentazioni sono state spesso smentite da Duterte, altrettanto spesso “il giustiziere”, appunto, ha velatamente rivendicato i fatti in questione a mo’ di vanto. D’altra parte, l’eliminazione “metodica” dei criminali è stato uno dei punti cardine della sua campagna elettorale: “sarà una presidenza sanguinosa – ha detto diverse volte – scordatevi le leggi sui diritti umani, se vinco farò le stesse cose che ho fatto come sindaco”. Niente di “sconcertante” considerando che la sua corsa verso la presidenza è stata contrassegnata da diversi episodi a dir poco «imbarazzanti».
Per esempio, ad aprile, durante un comizio, ha ricordato il caso della missionaria australiana Jacqueline Hamill uccisa e stuprata brutalmente da un gruppo di detenuti durante una rivolta avvenuta a Davao nel 1989. All’epoca sindaco, Duterte alla vista del corpo martoriato della Hamill, è stato lui stesso a raccontarlo, non esitò a pensare “l’hanno violentata uno dopo l’altro, era così bella, sarebbe toccato al sindaco cominciare”. Dopo aver inizialmente rifiutato di scusarsi, ha fatto marcia indietro presentandosi come “un uomo con molti difetti e dalle molte contraddizioni”.
Non c’è neanche bisogno di specificare perché molti lo hanno paragonato a Donald Trump. Tuttavia, Duterte ha sempre ribadito la sua distanza dal candidato repubblicano alla Casa Bianca: “è un bigotto” ha dichiarato più volte. L’ex sindaco-sceriffo, infatti, si è sempre dichiarato a favore dei diritti Lgbt e contro ogni forma di violenza e discriminazione dovuta all’orientamento sessuale. Una posizione quantomeno “coraggiosa” in un paese fortemente cattolico.
Con il miliardario newyorkese Duterte ha comunque molto in comune: entrambi vengono avvertiti come candidati del “popolo” e non dell’establishment, uomini “fuori dagli schemi” in grado di far saltare lo status quo che avvantaggia la cricca che ha in mano il paese. L’economia delle Filippine cresce attualmente a una media del 6% ma il paese rimane stretto in una morsa di corruzione, povertà e violenza, compresa quella di narcotrafficanti ed estremisti islamici. Allora a Duterte si può perdonare tutto, anche la minaccia di abolire il Congresso e istaurare un governo rivoluzionario, una dittatura, nel primo paese del sud-est asiatico che dichiarò la democrazia nel 1986, dopo aver spodestato il caudillo Ferdinand Marcos (anche il figlio di quest’ultimo, Ferdinand Jr. Marcos si è presentato a questo turno di presidenziali).