Brexit: la prova più dura per l’Ue
Brexit: la prova più dura per l’Ue
Il Regno Unito molto probabilmente non sarà più un membro dell’Unione Europea. Come si sa la Gran Bretagna è sempre stata un membro atipico della Comunità europea, vista con distacco e diffidenza dalla monarchia dello “splendido isolazionismo”. Gli ultimi accordi presi con l’Unione dal Governo Cameron per scongiurare la Brexit avevano dato ulteriori garanzie di non ingerenza in molti ambiti in cui è prevista la competenza di Bruxelles.
Brexit: la prova più dura per l’Ue
Niente moneta unica, niente vincoli di bilancio, niente MES, niente Unione Bancaria, fuori da Schengen, le ragioni della Brexit non sembrano aver molto a che vedere con i punti deboli solitamente associati all’istituzione comunitaria. Il detto anglo-sassone “all politics is local politics” sembra essere ancora una volta capace di descrivere un referendum su cui hanno inciso più che altro ragioni – in larga parte emotive – tutte interne alla politica britannica.
La questione immigrazione certamente è stata centrale nella campagna elettorale, ma non è certo considerabile un problema legato alla tecno-burocrazia europea. Va constatato che la strategia dell’Unione di garantire un’Europa a due velocità, sottoponendo a meno vincoli il Regno Unito mentre si procedeva ad ulteriori condivisioni di sovranità specialmente per i paesi dell’Eurozona – Bail in e Unione bancaria in primis -, non è bastata a frenare il fronte “out”.
L’Europa continentale è stata storicamente vista dai sudditi di sua maestà come un crogiolo di problemi e conflittualità da cui tenersi alla larga. Questo, unito ad una tradizione di common law che non ha alcuna dimestichezza con l’eccesso di regole e norme del civil law di stampo continentale è forse bastato a far prevalere di poco un “Leave” caratterizzato da motivazioni politico-economiche piuttosto deboli.
Un dato marginale ma interessante di questo referendum è stato il rapporto tra UE e UK che è emerso dalla campagna elettorale. I toni accesissimi, a tratti drammatici – l’assassino della deputata laburista Jo Cox – di questa campagna elettorale, gli apocalittici scenari post uscita, e le dichiarazioni dei leader europei e della Commissione, rilevavano sì il forte timore sugli esiti della consultazione, ma anche qualcosa in più.
Abbiamo assistito inermi alla proliferazione di notizie “strampalate” sull’aumento del prezzo del gelato, su dazi stratosferici, su 5-10 punti di PIL annui persi con l’uscita di Londra. Abbiamo letto dichiarazioni dei leader europei di tutti i tipi: Junker minacciare ritorsioni, Schauble la chiusura dei rapporti di libero scambio, il Governo francese addirittura agitare lo spauracchio dei migranti in caso di voto favorevole all’uscita.
Come fatto notare da molti analisti non è esattamente normale un’intromissione così pesante su una libera consultazione popolare, specialmente da parte di quelle istituzioni europee che dovrebbero essere arbitro e garante del Trattato di Lisbona e con esso dell’articolo 50 sul diritto di recesso “unilaterale e volontario”.
D’altra parte questo tipo d’ingerenza era stata ancora più marcata la scorsa estate nei confronti della piccola e fragile Grecia. Personalmente credo che queste dinamiche non siano meno preoccupanti per la salute delle democrazie europee del montare delle forze populiste o delle paventate “svolte autoritarie” di piccole riforme costituzionali; e che tutto questo venga considerato come normale tanto da passare in secondo – se non terzo – piano dovrebbe farci preoccupare ancor di più.
Adesso vedremo le reazioni a caldo, le borse, le prime dichiarazioni istituzionali e le ripercussioni interne alla politica britannica dove Cameron si era pesantemente esposto a favore del “remain” ed ora potrebbe vacillare e dove anche le spinte indipendentiste potrebbero presto a ritornare alle cronache.
In ogni caso, come condiviso da diversi economisti, aldilà di inevitabili turbolenze iniziali il sistema britannico è sufficientemente autorevole e resiliente da non subire danni rilevanti nel medio periodo. Le ripercussioni saranno prevalentemente politiche e diplomatiche. In ogni caso la prova più dura per l’Unione Europea, chiamata ad un’inversione di tendenza che non può più prorogare se vuole evitare una lenta e inesorabile agonia.
Luca Scaglione