Referendum Costituzionale, cosa dice il ricorso contro il quesito

Pubblicato il 7 Ottobre 2016 alle 18:19 Autore: Gabriele Maestri
Quesito referendum costituzionale

Referendum Costituzionale, cosa dice il ricorso contro il quesito

E’ stata fissata ieri per il 17 ottobre l’udienza in cui il Tar del Lazio discuterà, per poi deciderlo, il ricorso che chiede di annullare l’atto di indizione per il referendum confermativo della riforma costituzionale: secondo i ricorrenti il problema sta nel quesito, non formulato secondo quanto chiede la legge e, anzi, scritto in modo fuorviante, come “uno spot pubblicitario”.

La polemica era già stata sollevata nei giorni scorsi da vari esponenti dei comitati per il No (il primo, il 23 settembre, era stato Renato Brunetta), ma era rimasta sul terreno politico; questa volta, lasciati da parte gli argomenti non tecnici, le critiche sono state argomentate giuridicamente e messe su carta bollata, per sottoporle ai giudici amministrativi.

Referendum Costituzionale: Chi sono i ricorrenti

L’idea di rivolgersi al Tar è di due avvocati, Enzo PalumboGiuseppe Bozzi, in qualità di “cittadini elettori” e di componenti del comitato “Liberali per il No” (presieduto dallo stesso Bozzi), figurando anche come promotori di una delle richieste di referendum sulla riforma: sono stati loro a scrivere il testo del ricorso, nel quale figurano come ricorrenti anche i senatori Vito Crimi (MoVimento 5 Stelle) e Loredana De Petris (Sinistra italiana).

Giuseppe Bozzi Enzo Palumbo referendum riforma

Giuseppe Bozzi ed Enzo Palumbo

Sui media il ricorso appare come un’iniziativa targata M5S e SI, in realtà i due parlamentari sono stati coinvolti proprio da Bozzi e Palumbo, anche per rafforzare la legittimazione dell’azione: Crimi e De Petris, per parte loro, si sono detti subito disponibili a partecipare. I due ricorrenti promotori non sono nuovi a iniziative giudiziarie di questo genere: Enzo Palumbo – già senatore Pli nella IX legislatura e membro “laico” del Csm dal 1988 al 1990 – fa parte con altri avvocati del comitato giuridico del Coordinamento per la democrazia costituzionale che ha concertato e promosso vari ricorsi contro l’Italicum.

Sempre Palumbo è tra i promotori a Messina dell’azione che ha generato la prima questione di legittimità costituzionale sull’Italicum (seguita da quelle sollevate dai tribunali di Torino e Perugia) e tuttora difende i ricorrenti davanti alla Consulta, proprio insieme a Giuseppe Bozzi. Già ordinario di diritto civile alla Luiss, Bozzi è figlio di Aldo, a lungo deputato liberale e presidente della commissione che a metà degli anni ’80 elaborò una prima bozza di riforma della seconda parte della Costituzione; Giuseppe Bozzi ha fatto parte anche del collegio difensivo del gruppo di cittadini elettori che, dopo una lunga battaglia, è riuscito a far dichiarare l’incostituzionalità parziale del Porcellum (capofila di quel gruppo era Aldo Bozzi jr, che del suo omonimo è invece il nipote).

Referendum Costituzionale, Cosa c’è scritto nel ricorso

I ricorrenti hanno chiesto, per l’esattezza, l’annullamento del dPR del 27 settembre 2016 con cui è stato indetto il referendum confermativo della riforma e degli atti a questo connessi (come la deliberazione del Consiglio dei ministri del giorno prima e le proposte che l’hanno preceduta). E’ questo, infatti, il documento che contiene la formulazione “ufficiale” del quesito che dovrebbe essere stampato sulla scheda:

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»

Legge “costituzionale” o “di revisione costituzionale”: cosa cambia?

La prima critica formulata dai quattro ricorrenti appare a prima vista formale, visto che si concentra su un’espressione utilizzata dal quesito: la domanda interroga l’elettore sull’approvazione del testo “della legge costituzionale”, mentre doveva parlare di testo “della legge di revisione di articoli della Costituzione”.

L’articolo 138 della Carta costituzionale, come i tecnici sanno, distingue tra le “leggi di revisione della Costituzione” e le “altre leggi costituzionali”: il percorso per approvarle è lo stesso, ma per gli studiosi sono due ipotesi diverse tra loro. Le leggi di revisione della Costituzione, infatti, intervengono direttamente sul testo della Carta; le leggi costituzionali, invece, non toccano direttamente il testo, ma introducono al rango costituzionale – il livello più alto, nella gerarchia delle fonti interne – una norma (gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, per esempio, sono stati approvati con legge costituzionale; la deroga allo stesso articolo 138 con cui si voleva procedere alla riforma costituzionale sotto il governo Letta sarebbe stata approvata con legge costituzionale, non di revisione).

In realtà, di formale la questione ha solo l’apparenza: la legge n. 352/1970 – che regola l’istituto del referendum abrogativo e costituzionale – prevede infatti due formulazioni diverse del quesito a seconda che sia sottoposta ai cittadini una legge di revisione costituzionale o una “semplice” legge costituzionale. L’articolo 16 della legge – che tra l’altro, fanno notare i ricorrenti, non è nemmeno stato richiamato nel dPR che ha indetto il referendum – prevede queste due formule, la A) per la revisione costituzionale, la B) per le leggi costituzionali:

A) «Approvate il testo della legge di revisione dell’articolo… (o degli articoli …) della Costituzione, concernente … (o concernenti …), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ?»;
B) «Approvate il testo della legge costituzionale … concernente … approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ?».

Per i ricorrenti la prima formulazione si spiegherebbe con la necessità di richiamare l’attenzione degli elettori sui singoli articoli modificati in sede di revisione costituzionale, proponendo una domanda chiara: non sarebbero ammissibili, secondo chi si è rivolto al Tar, “quesiti omnicomprensivi e sintetici la cui formulazione possa consentire letture distorte che potrebbero surrettiziamente favorire (o ostacolare) riforme costituzionali che invece devono potere essere valutate in termini precisi e intellegibili, in modo tale che i cittadini possano valutare con assoluta e consapevole certezza ciò che si va a riformare”. Il Parlamento non avrebbe notato lo stesso bisogno, invece, per le altre leggi costituzionali: non toccando il testo della Costituzione, si è ritenuto sufficiente indicare la materia della legge, magari attraverso il suo titolo.

In questo caso la riforma interviene chiaramente su vari articoli della Costituzione, eppure dell’indicazione degli articoli ritoccati nel quesito non c’è traccia, essendo stato qualificato il referendum come confermativo di “legge costituzionale” e non di revisione. Già solo per questo, per i ricorrenti l’atto con cui si è indetta la consultazione dovrebbe essere annullato.

Referendum costituzionale

Un quesito “tendenzioso”?

Al di là della qualificazione sbagliata e della mancata indicazione degli articoli, per Palumbo e Bozzi il quesito non è comunque conforme al dettato del citato articolo 16 della legge sui referendum, perché conterrebbe “valutazioni di merito, come quella che reca il c.d. ‘contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni’, o riferimenti talmente vaghi e indefiniti (se non addirittura decettivi […]) da rendere del tutto incomprensibile l’oggetto della consultazione referendaria”.

Nel ricorso si considerano i precedenti delle riforme del 2001 e del 2006, entrambe sottoposte a referendum confermativo: la prima, quella del Titolo V voluta del centrosinistra, approvata; la seconda, quella voluta dal centrodestra per intervenire su una larga porzione della seconda Parte della Carta, bocciata. Nemmeno in quei casi, va detto, furono indicati nel quesito i singoli articoli oggetto della revisione, dunque nemmeno quelle due volte la legge fu rispettata, anche se nessuno allora sollevò il problema.

Nel 2001 e nel 2006, però, secondo i ricorrenti, l’intitolazione dei disegni di legge di ciascuna delle due riforme era stata “assolutamente oggettiva” e l’uso della formula sintetica prevista per le mere leggi costituzionali, “ancorché non strettamente rispondente alle prescrizioni di legge, risultava sufficientemente comprensibile”: i titoli, tra l’altro, corrispondevano alle porzioni di Costituzione che si intendevano modificare, senza entrare nel merito dei contenuti (“Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” nel 2001, “Modifiche alla Parte II della Costituzione” 2006).

Il problema, insomma, è dato – oltre che dalla mancata indicazione dei tanti articoli modificati – da ciò che c’è scritto nel quesito dopo la parola “concernente”. In effetti, in nessuna delle disposizioni relative al referendum costituzionale si precisa che subito dopo debba essere inserito il titolo della legge: fino a ora lo si è fatto un po’ per prassi, un po’ applicando per analogia l’articolo 27, comma 1 della stessa legge 352/1970, dettato per il referendum abrogativo. Quella disposizione precisa che:

[…] si devono indicare i termini del quesito che si intende sottoporre alla votazione popolare, e la legge o l’atto avente forza di legge dei quali si propone l’abrogazione, completando la formula “volete che sia abrogata…” con la data, il numero e il titolo della legge o dell’atto avente valore di legge sul quale il referendum sia richiesto.

copertina riforma costituzionale referendum

Il problema, secondo i ricorrenti, è che in questo caso l’uso del titolo della legge rende il quesito “suggestivo, fuorviante e incompleto”: il contenuto del disegno di legge di revisione costituzionale non sarebbe riprodotto “con quella fedeltà necessaria ad assicurare una corretta funzione informativa e di orientamento degli elettori”, ma ne sarebbero enfatizzati essenzialmente gli scopi, inseriti dal governo nel titolo del disegno di legge da questo presentato, titolo rimasto intatto nel corso del procedimento parlamentare di approvazione. L’intitolazione, si badi, poteva essere cambiata come tutto il testo della riforma, ma ciò non è avvenuto e dall’11 gennaio 2016 – giorno in cui la Camera, approvando il testo, ha chiuso la prima fase dell’iter parlamentare, quella in cui le modifiche sono possibili – il nome del disegno di legge è stato definitivamente fissato.

I ricorrenti puntano il dito soprattutto contro il riferimento al “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, ritenuto “assolutamente fuorviante”: nessuna norma toccata dalla revisione stabilisce i costi delle istituzioni, dunque – è la tesi – il contenimento sarebbe “soltanto la presunta (e neppure sicura) conseguenza delle altre modifiche introdotte”. Immaginando che le economie siano ricollegate dai sostenitori della riforma alla riduzione dei senatori, per Palumbo, Bozzi, Crimi e De Petris nel titolo si doveva scrivere “riduzione del numero dei senatori” e non “contenimento dei costi” (effetto che, peraltro, loro stessi contestano).

Anche sulle altre materie, tuttavia, non mancano le critiche: si parla genericamente di “superamento del bicameralismo paritario”, senza fare cenno alle materie che restano di competenza bicamerale e al “moltiplicarsi dei procedimenti legislativi”; si enfatizza l’abolizione del CNEL, mentre nulla si dice di “modifiche ben altrimenti rilevanti”, a partire dalle nuove regole sull’elezione del Presidente della Repubblica e dei cinque giudici costituzionali scelti dal Parlamento.

Per tutte queste ragioni – la mancata indicazione dei singoli articoli modificati e la formula “fuorviante” del titolo della legge riportato nella domanda – secondo i ricorrenti la formulazione del quesito è “parziale, capziosa e fuorviante” e il decreto presidenziale che la contiene sarebbe viziato da violazione di legge ed eccesso di potere, pertanto dovrebbe essere annullato.

Le questioni di rito

Quelle viste fin qui sono le cosiddette “ragioni di merito”, si sarebbe tentati di dire le più importanti. Davanti ai giudici, tuttavia, è importante considerare anche quelle “di rito”, cioè che non riguardano l’oggetto della contesa (in questo caso, l’annullamento del decreto per un’errata formulazione del quesito), ma una serie di altre questioni: per l’ordinamento, non tutti gli atti possono essere annullati dal giudice amministrativo e, in ogni caso, non può impugnarli chiunque, ma solo chi è in determinate posizioni. Non a caso, è probabile che una parte della difesa dell’Avvocatura dello stato si concentrerà proprio su ragioni di rito.

senatore m5s durante una intervista a tv locali

Da una parte, il decreto presidenziale è stato ritenuto impugnabile dai ricorrenti, non essendo considerabile un “atto di natura legislativa o di natura puramente politica” (atti su cui non potrebbe pronunciare il giudice amministrativo), anche sulla scorta di valutazioni precedenti proprio del Tar Lazio. Dall’altra, sul piano del cosiddetto “interesse ad agire”, Palumbo, Bozzi, Crimi e De Petris ritengono che “ciascun cittadino, proprio per tutelare i propri diritti soggettivi costituzionali, abbia personalmente titolo per vantare un interesse legittimo a che gli atti di riforma costituzionali vengano tutti adottati nel rispetto della legge e non ponendo atti in violazione di legge e/o eccesso di potere che possano surrettiziamente restringere i propri diritti primari tutelati dalla Costituzione”.

Non consentire ai singoli cittadini di impugnare il quesito equivarrebbe a negare a loro stessi la possibilità di reagire contro qualcosa che rischia di confondere loro le idee. In più, a confermare l’interesse dovrebbe contribuire il fatto che Palumbo e Bozzi erano stati promotori di un’iniziativa referendaria (anche se poi non sono state raccolte firme sufficienti da parte del “No”) e che Crimi e De Petris sono stati i presentatori in Cassazione delle firme dei senatori che hanno sostenuto la richiesta di referendum confermativo, dunque rappresentano il comitato promotore e possono impugnare il decreto.

Le critiche: “E il vostro quesito allora?”

Dopo che la notizia della presentazione del ricorso e della sua discussione davanti al Tar si era diffusa, lo scontro politico ha ripreso le argomentazioni già utilizzate nei giorni scorsi dopo le dichiarazioni di Brunetta sulla formulazione del quesito. I sostenitori del “No” hanno avuto nuova linfa per rafforzare le loro tesi sul voto contrario; chi voterà “Sì”, al contrario, ha parlato di un attacco sterile, sostenendo che sia la legge a predeterminare il contenuto del quesito.

de petris produttività parlamentare

Alcuni, peraltro, hanno fatto notare che anche Palumbo e Bozzi, con altri esponenti del comitato “Liberali per il No”, avevano chiesto alla Corte di Cassazione di poter promuovere la raccolta delle firme necessarie allo svolgimento della consultazione confermativa: nel verbale redatto dal funzionario della Corte, avevano messo la loro firma sotto a una richiesta di referendum costituzionale formulata esattamente come il quesito che loro, con il ricorso, contestano. Anche loro, dunque, sarebbero caduti in una contraddizione.

Per i due ricorrenti, in realtà, il problema sta proprio lì: una cosa era la loro domanda alla Cassazione, altra cosa è il quesito. Per Palumbo le due ipotesi sono regolate da articoli proprio diversi: del quesito – lo si è già detto – si occupa l’articolo 16 della legge 352/1970 , mentre alla “richiesta di referendum” fa riferimento l’articolo 4, comma 1 della stessa legge:

La richiesta di referendum di cui all’art. 138 della Costituzione deve contenere l’indicazione della legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata.

“Questa disposizione – spiega Palumbo – dice qual è, assieme ai nomi e alle firme dei promotori richiesti dall’articolo 7, il contenuto necessario del verbale della cancelleria della Cassazione, un atto che è rivolto soltanto a uffici e funzionari: in quel caso è normale che la legge, per essere identificata, debba essere citata mediante il suo titolo. Il contenuto del quesito, invece, non è assolutamente composto dai promotori, ma nasce dall’articolo 16, che ne detta una struttura rigida: per le leggi di revisione costituzionale occorre indicare espressamente gli articoli modificati e non si dice che dev’essere inserito per forza il titolo della legge”.

Gli articoli mancavano anche nella formula contenuta nel verbale della cancelleria e in quello stesso documento era riportata l’intitolazione della legge, ma per l’avvocato è chiaro che quel testo andava bene per quello specifico documento, mentre per il quesito occorreva seguire regole diverse. La legge, del resto, chiede solo che il verbale contenga le indicazioni prescritte all’articolo 4, non anche che queste siano già composte in forma che anticipa il quesito finale del referendum: questa, in altre parole, è una scelta dell’ufficio, ma non è vincolante per chi si esprime successivamente.

Tra dieci giorni o poco più si saprà se, per il Tar Lazio, il quesito resterà così com’è, se il decreto dovrà essere emanato di nuovo in forma corretta o se, a monte, non spettava a quei giudici esprimersi sulla questione. Nel frattempo, c’è da giurarlo, gli schieramenti continueranno  a scontrarsi, sul quesito così come sul merito.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
Tutti gli articoli di Gabriele Maestri →