Meriam libera, finalmente. Ora bisogna metterla al sicuro
Meriam è finalmente libera. Sarebbe più corretto dire che è uscita di prigione dove, ricordiamolo, è stata costretta a partorire la sua ultima bambina, Maya.
Sì, è semplicemente uscita dal carcere, non è completamente libera perché adesso Meriam è a Khartoum, in una località segreta dove, ci dicono, è al sicuro da rischi di linciaggio da parte della folla che la considera, alla stregua di chi l’aveva condannata, colpevole di apostasia e adulterio.
Quest’ultima notizia è stata diffusa dalle autorità sudanesi come per dire che la condanna che la stava per portare sul patibolo non era qualcosa di astratto, ma un sentimento condiviso dalla popolazione che vive in sintonia con i dettami della legge coranica.
Falso. La legge coranica in tutti i luoghi in cui viene applicata è qualcosa di imposto. Poi, naturalmente, ci sono i fanatici e ci sono fette di popolazione o rappresentanti di settori sociali che cercano di porsi davanti al potere con il massimo di adulazione e sudditanza. Ma per altri motivi: politici, sociali, non certo religiosi.
Considero quasi certo che la condanna di Meriam sia avvenuta per interessi inconfessabili. Uno lo si conosce, è quello di una sorella e del marito che hanno pensato bene di denunciare alle autorità il matrimonio di Meriam con un cristiano (da qui l’accusa di apostasia) per impossessarsi del negozio con i proventi del quale Meriam viveva.
Un interesse squallido, penoso. Ma sicuramente le autorità avranno deciso di prendere sul serio la denuncia per più alti interessi politici, sempre inconfessabili, interni o internazionali. Sempre, in questi casi, finisce per essere stritolata nell’infernale macchina della politica uno degli elementi più deboli della società: la donna.
Meriam era doppiamente debole: oltre al fatto di essere donna era sposata con un uomo costretto in carrozzina da una grave malattia degenerativa, considerata una punizione divina per un uomo cristiano che aveva osato fare cambiare religione alla donna che ha sposato.