I paesi Scandinavi alle prese con la riforma del welfare
La scorsa settimana, nel suo discorso annuale, il governatore della Banca centrale norvegese Øystein Olsen ha fatto il punto sulle prospettive dell’economia del suo paese. A cinque anni dall’inizio della crisi mondiale, ha detto, la Norvegia continua ad andare in controtendenza: bassa disoccupazione e crescita stabile. Il petrolio e il gas sono importanti carte da giocare, ha spiegato Olsen, ma credere che dureranno in eterno sarebbe un errore. E quindi bisogna concentrarsi su più fronti: investimenti, lavoro, produttività. Sono parole che assomigliano molto a quelle pronunciate qualche giorno fa dal ministro delle finanze Sigbjørn Johnsen: non è il petrolio la chiave per il benessere del futuro ma il lavoro e il lavorare più a lungo, e dunque l’equilibrio tra finanze pubbliche e stato sociale.
[ad]Già, il welfare. Da tempo la riforma dello stato sociale è tema dibattuto in Scandinavia. E le incertezze degli ultimi anni hanno fatto venire molti nodi al pettine. La Norvegia, che pur se la passa molto meglio di tanti altri, non è da meno. La scorsa settimana, ad esempio, il partito laburista si è fatto (e ha fatto) una domanda: perché non abolire l’età pensionabile? In questo modo si incentiverebbe al massimo la permanenza nel mondo del lavoro. Si è trattato solo uno spunto di riflessione, siamo lontani dal farne un programma politico: ma dà l’idea di un dibattito vivace. Del resto quando si parla di peso dello stato sociale, la prima voce è sempre quella pensionistica. E la riduzione della spesa pubblica è obiettivo diffuso in Nord Europa. A inizio febbraio, l’Economist ha ricordato che la spesa pubblica in Svezia è scesa drasticamente negli ultimi anni: era il 67% del Pil nel 1993, è oggi il 49%. Qualche giorno fa il quotidiano danese Jyllands-Posten ha scritto che in Danimarca ci sono 2,2 milioni di cittadini che vivono in tutto o in parte grazie al sostegno statale. La quota principale è rappresentata dai pensionati. Un record – è stato scritto.
Un record che era facile da prevedere considerato il progressivo invecchiamento della popolazione – si potrebbe aggiungere. In Danimarca l’aspettativa di vita media è di 77,9 anni per gli uomini e 81,9 per le donne (dati del Jyllands-Posten): in sostanza pensionati sempre più numerosi e per un periodo sempre più lungo. Ma questo non è l’unico problema in Danimarca. A Copenhagen si discute anche di come far ripartire un’economia ingolfata rispetto agli anni pre-crisi. Il leader dei Liberali, Lars Løkke Rasmussen, ha proposto al governo di centrosinistra una sorta di armistizio fiscale: nessuna nuova tassa per le imprese nei prossimi 30 mesi, cioè fino al voto. Anche in Norvegia la Destra afferma di voler ridurre drasticamente la pressione fiscale. Dopo aver parlato di lavoro, trasporti e sanità, la leader Erna Solberg da qualche giorno sta battendo il ferro delle tasse. Un progetto che secondo il partito socialdemocratico che guida la coalizione di governo produrrebbe effetti devastanti sul tessuto sociale del paese. Due diverse idee a confronto, quindi, ma i sondaggi continuano a dare ragione al blocco conservatore. In soccorso dei laburisti potrebbero però arrivare inaspettati alleati. A inizio settimana, Dagfinn Høybråten, ex leader del Partito Popolare Cristiano (secondo gli ultimi sondaggi all’8,3%) ha detto che il suo partito deve essere capace di guardare ad ambo gli schieramenti. E dunque anche ai socialdemocratici. A patto però che l’attuale alleanza di centrosinistra si rompa. In pratica, i laburisti devono abbandonare il Partito di Centro e il Partito della Sinistra Socialista. Un parere autorevole ma comunque non vincolante, quello di Høybråten, che però aggiunge un po’ di pepe a una competizione elettorale il cui esito appare scontato.
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