Via i rimborsi? Chi rischia il posto (e chi non l’avrà proprio)

Pubblicato il 30 Maggio 2013 alle 20:57 Autore: Gabriele Maestri

Via i rimborsi? Chi rischia il posto (e chi non l’avrà proprio)

A cosa serve il finanziamento pubblico ai partiti? «A pagare i dipendenti e i collaboratori». Si sarebbe seriamente tentati di dare anche questa risposta alla domanda, leggendo la dichiarazione rilasciata all’Adnkronos da Antonio Misiani, tesoriere del Pd. «La situazione non è drammatica – si legge nel lancio di agenzia – ma certo con la nuova legge sul finanziamento ai partiti […] non c’è alcuna garanzia di evitare una riduzione delle entrate e quindi sarà inevitabile un ridimensionamento dei costi strutturali e anche di costi del personale».

[ad]Per i lettori attenti delle notizie l’atteggiamento di Misiani non dovrebbe essere una novità. Quando si insediò, all’indomani della bufera scatenata dal “caso Lusi”, aveva chiaro fin dall’inizio che ai rimborsi elettorali i partiti non avrebbero proprio potuto rinunciare: «Un partito vive sempre, mica solo in campagna elettorale – dichiarò in un’intervista al Fatto Quotidiano il 14 aprile 2012 –. Quei soldi li usiamo per pagare l’attività politica, il personale. Il nostro bilancio è certificato. E rimborsi per le amministrative li trasferiamo sul territorio». Lo scorso marzo, se possibile, era stato ancora più esplicito: in una lettera ai dipendenti del partito (svelata da La Zanzara) annunciava «un severo ridimensionamento della struttura dei costi del Pd nazionale», che prevedeva la chiusura delle sedi in via del Tritone, la riorganizzazione degli spazi, una drastica riduzione di budget e benefit per vari settori nonché alcune azioni legate al personale (limiti alla fruizione delle ferie, comunicazione delle assenze, straordinari non più utilizzati da aprile in poi).

A scatenare quella lettera fu certamente l’entrata in vigore della legge n. 96 del 2012, che già aveva ridotto del 50% i fondi disponibili per i contributi a favore dei partiti, ma si era già pensato anche a una potenziale abolizione completa delle provvidenze pubbliche, così come era stato subito dopo il referendum del 1993 e così come il MoVimento 5 Stelle e alcuni esponenti politici (a partire da Matteo Renzi) volevano in campagna elettorale. Le rinunce che il Pd si imponeva erano di grande entità, ma – almeno pubblicamente – non dovevano arrivare alle conseguenze peggiori. Nel senso che nessuno avrebbe dovuto rimetterci il posto: «Non intendiamo licenziare – dichiarò proprio Misiani a Repubblica –. Sarà l’ultima cosa che farò. Preferisco prima ridimensionare tutto il resto. È chiaro che il costo del personale incide, bisognerà intervenire con altri strumenti, ma non ho mai detto che bisogna licenziare».

Probabilmente i timori, molto concreti, espressi oggi da Misiani sono figli più delle voci di una possibile abolizione totale dei rimborsi che di una situazione già concretamente difficile. Eppure agli «altri strumenti» di cui il tesoriere aveva parlato a marzo il Pd ha già pensato nelle scorse settimane, anche se se n’è parlato ben poco. «Una parte dei dipendenti e collaboratori è stata dirottata in cooperative di servizi – spiega Francesca Ragno, 30 anni, giornalista e componente del direttivo Pd di Albano Laziale – altri dovranno essere o sono già stati assorbiti dalle strutture dei gruppi parlamentari di Camera e Senato e dai singoli parlamentari, viste le numerose new entry». I parlamentari-matricola (così come i ministri e i sottosegretari), dunque, hanno consentito una soluzione almeno provvisoria: uno staff non l’avevano ancora (o non era più sufficiente per il nuovo ruolo), così una parte del personale che rischiava prima o poi di finire a spasso è passato a lavorare con loro, come assistenti o addetti alla segreteria. Per carità, non tutti i neoassunti sono stati e saranno “dismessi dal partito” (e, anche quando lo sono, si tratta generalmente di persone capaci e competenti), ma quel fenomeno esiste e come tale va registrato.

Storia a lieto fine? Per loro probabilmente sì (e solleva il fatto che non siano finiti per strada), ma non per tutti: «Questo riciclo dei lavoratori di partito di fatto ha bloccato il turnover del personale dei parlamentari – nota con amarezza Francesca Ragno – si è scelto di mantenere i posti di lavoro esistenti piuttosto che puntare su competenze e professionalità esterne e nuove, per dare più qualità e freschezza all’attività parlamentare. Perché il Pd non ha chiarito subito che il finanziamento pubblico ai partiti era fondamentale anche per far funzionare strutture come la nostra? Perché ha preferito rincorrere l’antipolitica mettendo a rischio il futuro di centinaia di famiglie?»

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
Tutti gli articoli di Gabriele Maestri →