John F. Kennedy, il mito che ha vinto il tempo
John F. Kennedy, il mito che ha vinto il tempo
“Considerato il malanimo che c’è in giro, mi aspettavo che colpissero uno di noi. Ma Jack, dopo tutto quel che aveva passato, non se n’era mai preoccupato”. Robert Kennedy
È passato mezzo secolo da quella tarda mattinata a Dallas, Texas. Per la precisione, sono le 12.38 del 22 novembre 1963, quando, nella città più reazionaria dello Stato più repubblicano d’America, un folle di nome Lee Harvey Oswald esplode tre colpi di fucile contro il Presidente degli Stati Uniti.
Tre colpi esiziali, fatali, che strappano alla vita e al mondo un appena quaranteseienne “Commander in chief”, eletto esattamente tre anni prima, il cattolico di origini irlandesi John Fitzgerald Kennedy.
Le circostanze del “delitto del secolo” sono sconcertanti: il Presidente e la first Lady, Jacqueline Bouvier, a bordo di una lunghissima Lincoln decapottabile, l’imponente spiegamento di servizi segreti e polizia, la folla festante, la giornata soleggiata. E poi lui, Oswald, un mitomane con problemi psichici, che spara da un deposito di libri scolastici con un fucile modello Carcano Mannlicher, un residuato bellico comprato per corrispondenza.
In pochi secondi si ribalta il mondo: il primo sparo non va a buon fine, il secondo colpisce Kennedy all’addome, il terzo, quello mortale, in testa, facendo schizzare sul retro della Lincoln un pezzo di calotta cranica, prontamente afferrata dalla moglie.
Ma la circostanza più assurda, quasi paradossale, è che l’intera scena viene filmata per puro caso da un tale di nome Abraham Zapruder, un commerciante di stoffe che, felice per aver appena comprato una nuova telecamera, decide di recarsi al corteo presidenziale e immortalarne i momenti più significativi.
Per comprendere la portata dell’assassinio di JFK, occorre fare un passo indietro e ripercorrere i passaggi più importanti della vita del Presidente, fino ad arrivare a quell’ 8 novembre del 1960, giorno in cui si impone per una manciata di voti sul suo sfidante repubblicano, Richard Nixon.
John Fitzgerald Kennedy nasce il 29 maggio del 1917, a Brookline, una cittadina nei pressi di Boston. È il rampollo di una delle famiglie più ricche del paese: il padre è il facoltoso banchiere di origini irlandesi Joseph Kennedy, la madre, Rose Fitzgerald, è la nipote del sindaco di Boston.
Curioso l’aneddoto che riguarda Joseph: si narra che il suo avvicinamento al Partito democratico e alla figura di Franklin Delano Roosvelt sia stato dettato dal timore che la grande depressione, provocata dall’eccessivo liberismo degli anni ’20, potesse portare ad un rafforzamento dei comunisti americani, ansiosi di replicare negli Usa la Rivoluzione d’Ottobre dei soviet. Era suo primario interesse, dunque, sostenere provvedimenti di welfare che scongiurassero il pericolo di sommovimenti popolari, che avrebbero messo in discussione il grande capitale accumulato.
Joseph, quindi, riesce ad entrare nelle grazie di Roosvelt e ottiene la nomina ad ambasciatore nel Regno Unito. Inizia così la parabola politica della famiglia Kennedy, di cui il secondogenito John Fitzgerald (che in famiglia tutti chiamano affettuosamente “Jack”) è protagonista assoluto.
Dopo il ritorno dalla seconda guerra mondiale, in cui si arruola come volontario per combattere la flotta giapponese nel Pacifico, il giovane JFK inizia, sotto l’ala protettrice del padre, l’avventura in politica, ovviamente tra le fila del Democratici. Jack brucia le tappe: deputato a 29 anni, nel 1946, senatore nel 1952. Ma non basta.
Per la sinistra americana sono tempi duri: alla Casa Bianca c’è il popolarissimo repubblicano ed ex comandante delle Forze Alleate in Europa, Dwight David “Ike” Eisenhower. E ai democratici serve un leader, una figura che sappia incarnare quella “Nuova frontiera” dell’american dream, così da riannodare i fili con il New Deal del mai troppo compianto Roosvelt.
L’intuizione di Kennedy senior è formidabile: “Nel 1960 Jack avrà 43 anni, è giovane, bravo, bello, ricco, abilissimo oratore, può farcela”. Deve farcela. E ce la fa. Al voto vanno 69 milioni di americani, John la spunta per un’incollatura, lo 0,2%, qualcosa come 112.000 voti. Ma è sufficiente.
Due mesi dopo JFK giura come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America, dopo otto anni la sinistra torna al governo. E l’Amministrazione Kennedy, almeno sul piano interno, di sinistra lo è: diritti civili, lotta alla povertà e alla disoccupazione, sostegno all’istruzione pubblica, desegregazione razziale, lotta senza quartiere alla criminalità organizzata (portata avanti, quest’ultima, dall’allora ministro della Giustizia, il fratello minore del Presidente, Robert “Bobby” Kennedy).
In politica estera, invece, la direttrice è più sfumata: da un lato si assiste alla distensione dei rapporti con l’Unione sovietica, dall’altro, però, la Presidenza di JFK è contrassegnata da Cuba e dallo scontro con il leader comunista Fidel Castro.
Nel 1961 il Presidente, non entusiasta ma comunque d’accordo con il fratello Bob e con la Cia, mette in pratica quello che l’amministrazione Eisenhower aveva solo teorizzato: un’invasione dell’isola per rovesciare il regime di Castro, instaurato da pochissimo. Il luogo scelto per lo sbarco è la Baia dei Porci. L’intera operazione si rivela, però, una disfatta: l’esercito cubano sbaraglia in pochi giorni gli invasori, perlopiù cubani esuli e anticastristi, e Kennedy perde la propria battaglia.
Come se non bastasse, i rapporti con i sovietici si deteriorano e, appena un anno dopo, nell’ottobre del 1962, il mondo sfiora la terza guerra mondiale. Teatro del dramma è sempre Cuba: l’Urss dà inizio all’installazione di missili nell’isola, che in ogni momento potrebbero colpire le coste americane. La pressione sul Presidente è fortissima: parte del governo e delle forze armate vorrebbero il bombardamento e lo smantellamento di tutti i siti sovietici.
John e Robert, però, stavolta fanno di testa loro: la flotta americana viene mandata a largo dell’isola con l’esclusivo compito di bloccare le navi sovietiche, ma nessun colpo deve essere sparato. Contestualmente vengono avviati sottotraccia negoziati segreti con Mosca.
Dopo due settimane in cui il mondo resta col fiato sospeso, Kennedy ha la meglio su Khruscev: l’Urss smantella immediatamente le basi missilistiche a fronte dell’impegno americano di ritirare i propri missili dalla Turchia.
La ricaduta d’immagine è impressionante e tutto l’Occidente acclama Kennedy come proprio leader. Leadership che si consacra nel giugno del 1963, quando il Presidente, in visita ufficiale a Berlino Ovest, critica duramente la costruzione del Muro e pronuncia la storica frase in tedesco: “Ich bin ein Berliner”. Di lì a pochi mesi, purtroppo, la corsa verso il secondo mandato si interrompe drammaticamente, in quel maledetto giorno a Dallas.
Ancora oggi, dopo 50 anni, non sono chiari i contorni di chi abbia realmente sparato a Kennedy. Difficile pensare che Oswald abbia organizzato tutto da solo, come ha ripetuto di recente il Sottosegretario di Stato Kerry, ma proprio a questa conclusione arriva la Commissione parlamentare d’inchiesta capitanata dal giudice Warren.
Quel che è certo è che JFK e fratello, durante gli anni al potere, si fanno molti nemici: i cubani, invasi militarmente, i sovietici, la mafia, a cui Bob infligge colpi pesantissimi. E, soprattutto, non si fanno amico il potentissimo capo del Fbi, il repubblicano di ferro J. Edgar Hoover, che odia “quei due comunisti”, i quali, puntualmente, ricambiano la cortesia.
Famosi i molteplici ricatti che Hoover muove a Robert Kennedy ogniqualvolta il giovane ministro prende provvedimenti senza il consenso dello stagionato boss del Bureau, minacciando di divulgare presso la stampa e l’opinione pubblica le numerose scappatelle extraconiugali del Presidente, su tutte quella con la diva dell’epoca, Marylin Monroe.
Cosa ci resta di quegli anni? Certamente l’America di oggi è profondamente e radicalmente diversa da quella di allora. Tuttavia non si può negare che la breve ma intensa presidenza di John Fitzgerald Kennedy abbia, in un modo o nell’altro, incarnato alla perfezione ciò che, nel linguaggio comune, si vuole intendere con l’espressione “sogno americano”. Camelot, infatti, era il soprannome dato alla Casa Bianca nei primi anni ’60, quasi a voler equiparare la Presidenza Kennedy al mitico regno di Re Artù.
Ed è proprio sotto questo aspetto che il mezzo secolo trascorso si fa sentire in tutta la sua forza: al giorno d’oggi leaders politici in grado di esprimere un sogno e una visione latitano drammaticamente.