Maria Chiara Carrozza e i “baroni” settantenni: qualche precisazione
A 70 anni i professori universitari, se fossero generosi e onesti,dovrebbero andare in pensione. […] I baroni- che oggi vogliono rimanere in ruolo oltre una certa età- offendono la propria università ma soprattutto i giovani. Prima di tutto bisogna pensare ai propri doveri. In un momento di sacrifici per tutti li facciano anche loro che hanno avuto tanto da questo mondo.
Così ieri Maria Chiara Carrozza ha dichiarato a Radio24 in un commento sul “decreto scuola” da poco convertito in legge. Parole “obiettivamente, largamente condivisibili”, ha scritto il commentatore che ha riportato la notizia su queste pagine. Parole che in bocca a un ministro che ha anche un passato di direzione di una scuola superiore universitaria preoccupano, mi viene invece da dire, perché sono la dimostrazione di una difficoltà a comprendere i meccanismi di gestione del mondo accademico inammissibili per un addetto ai lavori che ha pure l’ambizione di esprimere proposte progettuali di ampio respiro.
Cerchiamo di chiarire il quadro della situazione. La posizione di professore ordinario prevede infatti l’uscita dai ruoli e la messa a riposo all’età di settant’anni, quindi è a quell’età che la grande maggioranza del corpo accademico va in pensione, visto che la percentuale di docenti che arriva a fine carriera come ricercatore e professore associato (con messa a riposto prevista a 65 anni) è minoritaria, per quanto tutt’altro che insignificante. Tuttavia, è tradizionalmente concesso ai professori universitari, come ad altri dipendenti statali, di restare in servizio per un massimo di due anni dalla messa a riposo come “fuori ruolo”, e nonostante il tentativo di abolire il più in fretta possibile questa prerogativa da parte del legislatore la Corte costituzionale, con alcune discusse sentenze che sicuramente il ministro Carrozza aveva ben presenti quando ha pronunciato la frase iniziale, si è mostrata propensa a difendere l’istituto quantomeno per chi è stato assunto quando esso era in vigore. E’ rimasta del resto prassi piuttosto comune che gli atenei offrano ai docenti in pensione un contratto d’insegnamento, sostanzialmente per continuare a tenere corsi, seguire laureandi, ecc., per alcuni anni dopo il pensionamento.
Già da questo quadro emerge un problema. A coinvolgere i docenti in pensione nell’attività universitaria sono infatti gli atenei, in primo luogo perché legalmente possono farlo, e in secondo luogo perché economicamente conviene, visto che con una moderata integrazione alla pensione si ottengono i servizi di un docente maturo e ritenuto evidentemente capace, invece di usare gli stessi soldi per un contratto precario, insufficiente nella portata e quasi offensivo nella forma per un giovane, a 2-3000 euro a semestre, e visto che l’assunzione in ruolo di giovani studiosi non è solo enormemente più costosa e solo in pochi casi sostenibile per università allo stremo, ma è a tutt’oggi bloccata dallo stallo delle procedure di reclutamento previste dalla riforma del 2010. In tutto questo, fare appello alla coscienza individuale dei docenti è semplicemente ridicolo sul piano interpretativo, perché si scambia per causa del problema un suo effetto: il comportamento, infatti, nasce dalla convenienza imposta dalla necessità di adattarsi alle strettoie di un sistema che le politiche governative degli ultimi anni hanno creato e pervicacemente mantenuto.
La soluzione reale al problema dovrebbe prendere in considerazione almeno uno dei due ambiti: o la limitazione dei poteri degli atenei di attribuire incarichi ai pensionati, col rischio di sollevare resistenze da parte delle sedi locali e, come abbiamo visto, delle istituzioni di verifica costituzionale, e con la quasi assoluta certezza che la normativa sarebbe aggirata da attività “sommerse”, come già accade per l’ancora più assurdo divieto di far accedere all’insegnamento gli assegnisti di ricerca; o la riforma complessiva del reclutamento per una sua rapida riapertura in numeri significativi e lo snellimento delle pratiche, evidentemente piano troppo complicato in un momento in cui le priorità del governo sono ben altre, vista la difficoltà con cui quadrano i conti. E allora, come la retorica sulla scarsa pulizia morale dei “baroni” nelle commissioni di concorso aiuta a scaricare la responsabilità di un’inefficienza delle procedure di assunzione alle università a cui non si ha la forza di porre rimedio, così l’impossibilità o l’incapacità di intervenire con modifiche legislative significative viene oscurata dall’accusa a un gruppo di anziani un po’ troppo esosi o desiderosi di restare tra le mura dell’accademia per tutelare più da vicino i loro loschi affari o le loro reti di relazioni perverse.
Al di là del piano strettamente giuridico della pratica del mantenimento in attività dei docenti in pensione, poi, appare mal posto il problema visto esclusivamente nell’ottica dell’età anagrafica dei beneficiari dei contratti, e del conseguente “blocco” a causa loro dell’iniezione di forze fresche. per capire quanto questi termini semplicistici siano privi di senso non serve richiamare le dotte critiche alla lump of labour fallacy: qui siamo tutte persone istruite, e quindi sappiamo che mandare qualcuno in pensione non significa sopprimerlo ma continuare a pagarlo per non produrre, che più tempo produce meno tempo graverà sul sistema di previdenza sociale, portando a ridurre la spesa pubblica con tutti gli effetti benefici che conosciamo, e che se un giovane viene assunto con l’idea che andrà in pensione più tardi gli si potranno trattenere meno contributi dallo stipendio lordo, e quindi il costo del lavoro potrà scendere. Posso rifarmi, per questo, a una semplice comparazione nata dalla mia esperienza personale.
A Cornell, dove sono stato visiting nel 2012, il mio supervisore era Sidney Tarrow, classe 1938, professore emerito, ma che tiene corsi sia al College che alla Law School, e che soprattutto gestisce un imponente fondo per una ricerca da lui attivamente diretta. Per approfondire alcune questioni mi ero trasferito a lavorare qualche settimana in un centro studi di New York e mi ero rivolto, tra gli altri, a Joseph LaPalombara, docente in piena attività a Yale, che è stato il suo maestro. E come se non bastasse, una volta giunto a Ithaca sono stato messo in contatto da Tarrow con un mio “compagno di studi” normalista, il grecista Pietro Pucci: sono andato a trovarlo all’uscita di uno dei tre corsi che teneva nel semestre, perché potesse raccontarmi di come, una volta finita la resistenza, fosse entrato nel Collegio per reduci e partigiani che la Normale aveva messo in piedi per lavarsi la coscienza degli orientamenti caratterizzati da gentilianesimo e corporativismo “estremo” che aveva sostenuto per gran parte del Ventennio. Detto in parole povere, si era iscritto all’università nel 1945.
Tutto questo avviene perché per questi anziani signori negli USA, come per la mia generazione in Italia, l’ammontare della pensione dipende dalla responsabilità individuale: tanto pago, tanto ricevo, quindi nessuno può obbligarmi a gestire la pensione in un modo o nell’altro, e decido io se e quando riscuoterla. Ma soprattutto, tutto questo avviene senza un effetto immediato sulle carriere. La scelta di continuare il lavoro universitario fino a oltre gli ottant’anni è piuttosto diffusa, ma l’ingresso dei giovani non ne è influenzato in modo diretto: alcune discipline (soprattutto quelle umanistiche) vivono anche qui una crisi profonda, ma per ragioni dovute alle scelte degli studenti e al conseguente riorientamento degli investimenti da parte delle sedi. Detto in altri termini, se un grecista va in pensione, è probabile che quel posto non apra prospettive a nessuno perché sarà cancellato.
Questa esperienza dovrebbe portarci a guardare al caso italiano comprendendo ancora meglio la natura strutturale di una situazione che il ministro ha colpevolmente derubricato a questione etica e generazionale.
- Non è vero che in Italia serva mandare in pensione qualcuno per assumere all’università: i ruoli accademici sono inferiori alle necessità di una formazione di qualità, che deve partire da un aumento dell’intensità dell’impegno didattico (non solo con le lezioni, ma anche con tutorati, progetti esterni all’aula, supervisioni di tesine) e da una riduzione del numero di studenti per classe in molti esami fondamentali. Per questo servono braccia. Del resto, ormai la metà dell’impegno didattico e di quei risultati di ricerca che permettono al paese (chissà per quanto ancora) di sopravvivere nel novero delle nazioni sviluppate è frutto del lavoro di precari; essi sono quindi indispensabili, senza di loro semplicemente in Italia non c’è università, e trovare una forma di stabilizzazione del loro lavoro negli atenei è la sfida che ogni riforma dell’istruzione superiore in Italia dovrebbe porsi e non si pone mai. Tanto per cominciare, comunque, bisogna smettere di far passare ogni posto messo a concorso e ogni contratto come un favore che il sistema universitario nazionale fa a chi lo vince, perché semplicemente non è così.
- Se proprio vogliamo fare pulizia tra gli assunti, cerchiamo di ricordarci che la divisione non può essere, e non è, tra giovani e vecchi, ma tra persone più o meno capaci e idonee al loro ruolo. Per liberare posti di ruolo, più che mandare in pensione (e quindi continuare a pagare, ricordo) la gente, dovremmo licenziare (soluzione decisamente più economica) chi non si dimostra adeguato. Tutti continuiamo a dire che i sistemi di reclutamento degli ultimi anni erano inefficienti: individuare i casi in cui l’errore è stato più evidente e sanarli è il corollario evidente di questa convinzione, quindi occorre attribuire alle università gli strumenti legali per liberarsi dei pesi morti, e incentivarle a farlo attraverso la distribuzione delle risorse per gli stipendi. Visto quanto detto al punto 1, si tratterebbe comunque di tagli col bisturi e non di grandguignolesca macelleria.
- Provo a tradurre questo punto per chi effettivamente ritiene necessario svecchiare laddove c’è bisogno: possiamo farlo con un provvedimento di natura indiretta di quelli tanto cari alla cultura liberale. In Italia, il carico di lavoro dei docenti di una certa età (non tanto a livello di ore di lezione, quanto di qualità minima e di impegno minimo richiesti nell’insegnamento) non è molto dissimile da quello dei pensionati (che, per chi non capisse l’allusione, è pari a zero). Rendere più probante questo carico, ad esempio sottoponendo anche i docenti di ruolo ai controlli di qualità (spesso non condivisibili nel merito, ma comunque impegnativi e stressanti) che si cercano di mettere in piedi per valutare chi non è stato ancora assunto, forse servirebbe a far cambiare i progetti di vita di molte persone. Che magari non andranno subito in pensione, ma potranno trovare, se le loro competenze li aiuteranno, ruoli di consulenza e di studio in altri settori e in altre istituzioni. Anche perché, prima di decidere di smettere di lavorare, occorre tener conto delle modifiche al trattamento economico dei pensionati “di lusso” di cui al punto seguente.
- In tutto il mondo del lavoro, il sistema pensionistico deve subire modifiche radicali, riassumibili nell’estensione del sistema contributivo anche a chi riceve già una pensione conteggiata in altro modo, per garantire una ristrutturazione delle spese. Da un lato, da questo riequilibrio dipende la qualità della vita delle generazioni più giovani. Dall’altro la salute dell’università (che è, e non può non essere, prevalentemente pubblica) e la disponibilità delle sue risorse dipendono in primo luogo dalla riduzione di altre spese, e da una duratura crescita economica che consenta di rendere la formazione superiore un investimento effettivamente interessante di tempo e risorse per gli individui. Il problema, comunque, come ho detto fin dall’inizio, deve essere risolto a livello complessivo: pensare a un sistema di turnover valido solo per l’università non ha senso, per il semplice fatto che nessun ambito lavorativo è separato dagli altri, e non solo per quanto riguarda la gestione delle pensioni.