Il pilota bielorusso annuncia che arriveremo a Juba in 45 minuti, indica le uscite di sicurezza dell’elicottero, ci consiglia di mettere le cuffie e poco dopo le grosse eliche frustano l’aria, sollevano vortici di polvere.
Esattamente dopo tre quarti d’ora la città di Juba appare in lontananza. Brilla, letteralmente, nella savana immersa nella luce del tramonto. A brillare sono tutti i tetti di lamiera di questa giovane città che vista dall’alto promette il caldo soffocante che, puntualmente poi elargisce ai suoi ospiti. La guerra si percepisce anche qui. Ci sono molti edifici in costruzione lasciati a metà, fermi, scheletri che forse rimarranno tali. E poi chi conosce questa città ci dice che non c’è più traffico, che molti negozi sono chiusi, che a volte mancano alcuni prodotti. Juba è forse la città più cara del mondo, tutti pensano a realizzare. Oggi, domani, al massimo dopodomani perchè il futuro nessuno sa cosa riserverà. Questa guerra è stata la rovina di molti. Nel Sud Sudan ci sono molti eritrei: ristoranti, imprese di costruzione. Non potevano investire nel loro paese e lo hanno fatto in uno che, sulla carta, doveva solo crescere, costruire, produrre. Ora sono disperati. La guerra è anche queste storie. Certo, minime ma pur sempre storie.
Dall’aeroporto per rientrare nel compound del CCM passiamo davanti alla residenza dell’ex vice presidente Riek Machar: un lungo muro di recinzione sul quale si vedono ancora i colpi di mortaio e il pesante cancello di ferro divelto. Lui è riuscito a mettersi in salvo ma, almeno fino ad ora, ha perso militarmente. Le tre città degli stati che contano – Unity, Jonglei e Upper Nile – cioè Bentiu, Bor e Malakal, sono controllate dai governativi. Ma Machar non si sa dove sia, qualcuno dice che è nel bush, che si sta preparando alla prossima mossa: mettere in ginocchio il Sud Sudan è facile, basta rendere insicuro il territorio, basta rendere intrasportabile il petrolio, unico prodotto dell’esportazione sud sudanese. Basta bloccare la crescita di un paese che se non cresce muore.
A Juba lo sanno in molti e non c’è ottimismo. La città ostenta una certa normalità, l’ora del coprifuoco è stata spostata alle ventitrè, un respiro di sollievo per i ristoranti e per quanti se li possono permettere.
I CAMPI PROFUGHI
Entrarci non è facile. Bisogna fare domanda alle autorità, bisogna essere accreditati come giornalisti, bisogna avere l’autorizzazione dell’Organizzazione Internazionale dei Migranti (OIM), agenzia delle nazioni unite che gestisce questo campo. Quando ci si entra si capisce il perché di tutta questa burocrazia. Il campo è letteralmente una bomba ad orologeria: ventimila persone ammassate all’interno di un compound delle Nazioni Unite, con poco spazio, con una promiscuità intollerabile, con un livello di tensione enorme. Questi non sono normali profughi. Si, certo, sono fuggiaschi, ma sono scappati da poche centinaia di metri di distanza da qui, non hanno fatto chilometri a piedi con mercanzie sulla testa e bambini al seguito. Questi erano cittadini di Juba, di questa città dove poco prima di Natale è scoppiata la guerra civile. Sono tutti di etnia Nuer, quella del capo dei ribelli.
Quando hanno visto che il presidente rivale stava per vincere si sono messi al sicuro, certi che i dinka del vincitore li avrebbero sterminati, uno per uno, in modo scientifico. Ora sono rinchiusi in questo campo, ostaggi di se stessi, prigionieri nella loro città che non è più la loro, nella quale hanno perso il diritto di vivere. Non è rimasto loro nulla, nel momento della fuga non hanno preso niente con se, solo i bambini, il resto della famiglia ed ora sono bloccati.
Se escono, anche solo per prendere dell’acqua o dei viveri vengono uccisi, ci dicono addirittura che ci sono dei cecchini appostati che attendono di prenderli per fame. Nella loro fuga precipitosa in poche ore si sono ammassati in questo compound del quale i caschi blu delle nazioni unite hanno aperto le porte. Nel momento della distribuzione, nell’ora più calda della giornata, c’è una fila infinita di donne che attende. Mi chiedo perchè solo donne e mi spiegano che dalle donne c’è da aspettarsi più tranquillità, più pazienza. E di pazienza ce ne vuole molta, si tratta di aspettare anche ore. Per evitare disordini devono fare la fila all’interno di un corridoio di filo spinato. L’immagine fa impressione, ricorda i lager ma loro sorridono incuriosite dall’uomo bianco con la macchina fotografica, si mettono quasi in posa. Sono belle, slanciate, filiformi, hanno trovato il tempo di acconciarsi i capelli con extension e treccine.
Gli uomini stanno nel campo, molti giocano a carte, altri dormono su cartoni consunti e stuoie consumate. I bambini giocano dappertutto. Nell’unica fontana di acqua potabile di questo campo surreale ancora donne e bambini a riempire taniche, distribuiti dall’Onu, di acqua potabile che trasportano gocciolanti sul capo.
Eppure in questo inferno questi ventimila persone hanno cominciato ad organizzarsi: hanno creato piccoli mercatini con povere merci acquistate da qualcuno fuori dal campo e hanno creato un sistema economico proprio in questa assurda repubblica di profughi. L’umanità riesce sempre a sorprendere, anche quando c’è la guerra.