Con l’avvicinarsi ad appuntamenti elettorali e il conseguente moltiplicarsi di rilevazioni delle intenzioni di voto, regolarmente torna a imporsi nell’opinione pubblica il tema del non-voto. Secondo una tendenza ormai consolidata, una quota stabilmente superiore al 30% degli intervistati sembra voler optare per l’astensione, e alcuni protagonisti della vita politica e dell’informazione guardano con preoccupazione alla possibile crisi di legittimità delle istituzioni di fronte a un rifiuto della partecipazione elettorale che sembra farsi sempre più diffuso. D’altro canto, sull’onda del disamore della politica che negli ultimi mesi (o anni) ha conosciuto un’impennata, non pochi cominciano a guardare alla possibilità di una progressiva generalizzazione del non-voto come a una via d’uscita alla crisi di rappresentanza della classe politica italiana, considerando con favore come un cataclisma rigenerante, che forzerà definitivamente il ricambio ai vertici, quel crollo della legittimità istituzionale dettato dal disinteresse dei cittadini per le competizioni elettorali che altri guardano con timore.
Forse, è bene impostare alcuni elementi di massima che possono tornare utili per comprendere meglio ciò di cui si parla e individuare l’effettiva validità di alcuni assunti.
Leggendo qua e là tra articoli giornalistici, interventi on line di analisti politici e commenti di lettori, mi sembra che al di là delle valutazioni opposte sul fenomeno stia emergendo una linea interpretativa comune che può essere così riassunta:
- La quota di astensioni rilevata nei sondaggi è destinata a ripetersi effettivamente alle urne;
- La legittimità delle istituzioni è direttamente proporzionale all’affluenza degli elettori al voto che serve per costituirle;
- C’è la possibilità reale che la riduzione dell’affluenza continui, fino a una soglia critica oltre la quale la partecipazione degli elettori sarà troppo bassa per fornire reale legittimazione democratica alle istituzioni.
Valutare fino a che punto questi assunti siano fondati è cruciale per capire se effettivamente è corretto porre il problema nei termini che attualmente sembrano andare per la maggiore. Analizzandole più da vicino, in effetti, ci si rende conto che queste tre assunzioni sono piuttosto deboli.
1. La prima affermazione è quella più chiaramente fallace. Nel corso dell’ultimo decennio o giù di lì, infatti, è andato effettivamente a votare almeno un 10-12% del corpo elettorale complessivo rispetto alla quota che rispondeva con convinzione ai sondaggi. Non solo da noi, del resto, con il tramonto dei modelli di partito ad elevata presenza sociale, che raccoglievano e organizzavano il consenso ogni giorno con una raccolta diretta e una partecipazione continua degli elettori alla loro vita, una fetta crescente di votanti ritarda fino a ridosso della tornata elettorale la propria scelta che poi (specialmente, ma non solo, in Italia) è nella grande maggioranza dei casi scelta tra non andare a votare o votare per il proprio soggetto di riferimento di lungo periodo, o al limite scelta tra un range molto limitato di forze politiche piuttosto simili. Le ragioni di questo ritardo possono essere molto diverse tra loro (maggiore riflessione, volontà di informarsi meglio, disattenzione verso il confronto politico, attesa che il proprio referente elettorale locale si collochi nell’ambito di un sistema di riferimenti nazionali divenuto meno rigido e assai più mobile), ma sta di fatto che questo fenomeno è ormai assodato, e quindi se un sondaggio effettuato due mesi prima del voto da un 35% di persone che non intendono partecipare alle elezioni non c’è alcuna ragione di comportarsi come se quel dato si fosse effettivamente verificato.
2. la seconda affermazione è sicuramente più complicata, perché è molto difficile dare una interpretazione univoca alle percentuali di affluenza alle urne. Da questo punto di vista, i risultati dei vari paesi sono difficilmente paragonabili, perché dipendono dalle abitudini della cittadinanza, dalle norme relative all’esercizio del diritto di voto (in alcuni stati le procedure di registrazione sono piuttosto complesse), dal sistema elettorale, dalla longevità delle tradizioni democratiche. In uno stesso paese, poi, i dati variano nel corso del tempo anche per ragioni estemporanee Però, pur senza alcuna pretesa di spiegare ogni singolo caso, si può provare ad astrarre una regola generalissima che possa essere utile soprattutto per l’Italia: al di là degli altri fattori,c’è una certa tendenza a trovare affluenze più alte laddove l’identificazione dei cittadini nelle istituzioni è più nettamente mediata dalla partecipazione a gruppi e soggetti sociali “intermedi” e non sempre pienamente “costituzionalizzati”. Il caso più frequente e noto è quello ben esemplificato dalle “repubbliche dei partiti” nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, tra le quali l’Italia ha rappresentato per lungo tempo un caso piuttosto classico. Tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta l’affluenza italiana stabile tra il 90% e il 92% accompagnava una partecipazione alla vita istituzionale costantemente mediata (non esclusivamente ma in modo largamente preminente) dai grandi partiti di integrazione di massa, che gestivano e filtravano l’adesione simbolica dei loro militanti alla comunità statuale, e spesso finivano anche per avere molta voce in capitolo sull’esercizio concreto della cittadinanza e sul godimento dei diritti sociali. La (finora piuttosto graduale) flessione nella partecipazione elettorale dal 90% fin sotto la soglia dell’80% è coincisa con la riduzione della capacità dei partiti di giocare questo ruolo di coinvolgimento e di integrazione sociale, con la nascita di nuove forme di mobilitazione sul piano dell’opinione pubblica il cui successo ha profondamente cambiato anche partiti strutturalmente “pesanti” come PCI e PSI, con un generale affrancamento dell’elettorato da proposte di appartenenza ideologica “forti” e onnicomprensive.
In generale, però, in tutto questo non è possibile ravvisare alcuna immediata correlazione positiva tra affluenza alle urne e legittimità del sistema politico e istituzionale: tanto per guardare ad alcuni casi stranieri particolarmente noti, il regime politico statunitense è storicamente il più stabile del mondo contemporaneo, e la sua legittimità è ampiamente riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei suoi cittadini, che partecipano con convinzione ai rituali propri della sua vita istituzionale, tuttavia proprio per questo rapporto di identificazione particolarmente diretto tra comunità nazionale e rappresentanti del governo la legittimazione delle istituzioni passa solo parzialmente per l’esercizio del voto, abitudine condivisa da poco più di metà di coloro che ne avrebbero potenzialmente diritto. Per converso, l’elevatissima affluenza che caratterizza da lungo tempo le elezioni che si tengono in Belgio non è segno né di una particolare funzionalità delle istituzioni, come dimostrano le recenti traversie vissute dal paese per la formazione di un governo, né di una loro legittimità incondizionata, se si tiene conto che alla frammentazione sociale dovuta al peso esercitato per decenni dalle grandi istituzioni partitiche di massa si aggiunge anche la profonda frattura etnico-linguistica che caratterizza la storia del paese. Tornando all’Italia, si può notare che nel progressivo incremento dell’astensionismo il nostro paese non ha fatto altro che uniformarsi a una tendenza comune a tutte le democrazie dell’Europa continentale: non si vuole certo negare che il nostro sistema politico viva una crisi profonda, ma l’impressione è che potrebbe tranquillamente essere in ottima salute e vedere alle urne la stessa percentuale di elettori che vi si reca ora.
3. l’ultimo assunto è estremo e per questo piuttosto affascinante. Con un’affluenza alle elezioni politiche ancora sul 75-80%, nessuno pensa che sia dietro l’angolo uno scenario in cui il numero effettivo di elettori sia così basso da delegittimare le pratiche elettorali e l’intero sistema istituzionale che su di esse si regge; tuttavia, è anche vero che se una consultazione elettorale per il rinnovo del Parlamento dovesse di punto in bianco veder recarsi alle urne meno, diciamo, del 15% degli aventi diritto, difficilmente il sistema potrebbe reggere il colpo. Tuttavia, questo scenario per quanto (ancora) improbabile è effettivamente possibile? Quanto sappiamo delle dinamiche socio-politiche ci dice che un evento del genere può far parte del “decorso” di una patologia mortale dell’“organismo” democratico?
La risposta sembra essere negativa. Tanto per cominciare, le elezioni che hanno preceduto o sancito il collasso di un regime democratico in crisi (gli esempi principali sono quelli dell’Italia nel 1921, della Germania nel 1932-33, della Spagna nel 1936, del Cile nel 1970) non hanno mai visto crolli vistosi dell’affluenza, nemmeno nei casi (come quello tedesco) in cui la forza politica destinata a portare le istituzioni democratiche al crollo è emersa proprio attraverso il successo elettorale. Al contrario, allargando ancora una volta lo sguardo a un numero maggiore di casi, e sempre tenendo conto di tutte le innumerevoli variabili che riguardano l’affluenza, più studiosi sono arrivati a concludere che la tendenza a un calo duraturo (questa è una caratteristica da tenere presente) dell’affluenza ha più probabilità di verificarsi nel corso di processi di stabilizzazione del sistema, più che nelle sue crisi di legittimità. La spiegazione di questo fenomeno apparentemente paradossale si può trovare in parte proprio nella diversa natura delle forme di astensionismo che si giustappongono in una tornata elettorale: proprio in riferimento all’Italia, Luca Ricolfi ha riassunto così quanto sta succedendo negli ultimi anni:
L’astensionismo classico coinvolgeva soprattutto gli elettori marginali, qualunquisti, poco interessati alla politica. Da un paio di decenni, tuttavia, accanto a questo astensionismo “storico” si è andato formando e consolidando un tipo di astensionismo nuovo, di tipo politico, o di protesta. Persone che non andavano a votare non già perché lontane dalla politica ma, semmai, perché troppo coinvolte nella politica. Cittadini disgustati dai partiti, ma anche cittadini così politicizzati da trovare troppo moderata l’offerta politica disponibile.
Nei momenti di crisi acuta, in effetti, il numero delle persone che non votano “perché troppo coinvolte nella politica” aumenta, ma a differenza di quello degli “elettori marginali” difficilmente il suo sviluppo è duraturo. L’elettorato che potremmo chiamare “attivamente astenuto”, che percepisce il proprio non-voto come una precisa presa di posizione verso un sistema di partiti in cui non si riconosce, vede di solito la sua astensione come un fenomeno eccezionale, un ritiro momentaneo da quell’arena politica e partitica a cui, proprio per il suo intenso coinvolgimento, guarda come al suo luogo naturale. Questo atteggiamento porta l’elettore attivamente astenuto a tornare a votare quanto prima (magari finendo per essere sostituito nel non-voto da altri insoddisfatti che seguiranno un percorso simile al suo), non appena si presenta un’offerta in qualche modo congeniale ai suoi convincimenti e/o capace di cavalcare le ragioni della sua protesta. Per questa ragione, quando le componenti di un regime democratico entrano in una crisi profonda, il vero problema non è quasi mai il crollo dell’affluenza alle urne, ma piuttosto la proliferazione o il rafforzamento di soggetti politici radicali, demagogici, irresponsabili, che raccolgono fette sempre più imponenti di elettorato sfuggito al controllo delle forze che puntellano il sistema.
In conclusione, cosa si può dire dei rischi di progressiva riduzione della percentuale di votanti effettivi nelle tornate elettorali, a cui in questo periodo in Italia si guarda ora con paura, ora con speranza? Tendenzialmente, che la quota di astenuti ad ogni consultazione elettorale non è il problema. Se il nostro paese si stesse avviando verso un confronto politico meno conflittuale e basato più sulla concretezza delle proposte che sulle identificazioni e le esclusioni, verso un rapporto con le istituzioni, i diritti e i doveri più diretto e meno mediato da gruppi “intermedi” di varia natura, verso una stabilizzazione delle forme e delle pratiche di rappresentanza, probabilmente vivrebbe la stessa tendenza al calo dell’affluenza elettorale, forse anche con numeri di elettori astenuti più elevati.
Con questo voglio dire che non abbiamo nulla di cui preoccuparci? Certo che no. Voglio caso mai dire che il problema, ancora una volta, è più profondo. I votanti calano da tempo perché evidentemente il tradizionale ruolo portante dei grandi partiti è venuto meno in una rapida evoluzione, ma la questione cruciale è che non si sono ancora consolidate forme alternative di partecipazione politica e di condivisione della lealtà istituzionale; a dire il vero, non si vedono neppure all’orizzonte. E in questo terreno di coltura sono sorti fenomeni di varia natura, diversa intensità e differenti destini, alimentati da quel “voto di ritorno” di cui parlavo in precedenza. Se non si trovano i modi (e gli uomini) giusti per ricostruire una partecipazione istituzionale più sana dalle fondamenta, continueremo a vivere di sofferenze non quando un po’ di delusi eviteranno di andare a votare, ma quando torneranno ai seggi.