Il più grande saltatore della storia
Il più grande saltatore della storia
Il salto è da sempre allegoria mescolata di forza, eleganza e potenza. Gesto tecnico atletico che coinvolge, trascina ed entusiasma. Se qualcuno mi chiedesse chi sia stato il più grande saltatore della storia dello sport, o la storia più affascinante legata ad un salto, ammetto che la scelta sarebbe davvero difficile. In un mondo sportivo smaccatamente filo calciofilo come il nostro, sarebbe fin troppo facile creare interesse raccontando del colpo di testa di Materazzi nella finale dei mondiali contro la Francia del 2006. Ci sono le schiacciate dei pallavolisti azzurri, gente che in quanto ad elevazione va sotto con pochi. C’è Julius Erving, Doctor J per tutti, che precedette Michael Jordan (AIR, potrebbe bastare solo il soprannome per inserirlo in questo contesto) come primo schiacciatore in grado di staccare dalla linea di tiro libero e affondare la palla nel canestro. C’è pure Vince Carter, uno che nella NBA due o tre schiacciate le ha messe a repertorio. Uno che sul palcoscenico olimpico principale, quello della finale, si permise di andare oltre il concetto di “schiacciare in testa all’avversario”, saltando -letteralmente- sopra la testa di Frederic Weis durante USA – Francia. Dettaglio non secondario: Weis sarebbe due metri e diciotto. Senza scarpe. Dopo quella azione rimasta celebre, il transalpino di belle speranze, scelto l’estate precedente dai New York Knicks al draft con il numero 15, non varcò mai l’oceano per giocare tra i pro. Non doveva averla presa benissimo..
È però nel mondo dell’atletica leggera, dove la cura del singolo gesto assume ruolo centrale e fondamentale, che si nascondono le storie più clamorose ed incredibili. Come in un ipotetico podio tre in particolare meritano più spazio rispetto alle altre.
Medaglia di bronzo – Sul terzo gradino va sicuramente Javier Sotomayor, il più grande saltatore in alto della storia senza stare neanche a girarci tanto attorno. E non tanto per il suo comunque tuttora imbattuto record di 2,45m, quanto per il fatto di essere stato quello che nella storia abbia superato il muro di due metri e quaranta più spesso di chiunque altro. Un solo dato, che lascia sbalorditi. Dal 5 giugno 1994, in cui a Siviglia fece registrare un 2,42, al 4 luglio 2013, quando il russo Bodan Bondarenko varcò quota 2,41, il numero di atleti in grado di saltare più di quei famosi 240 centimetri furono la bellezza di… ZERO. Tre diversi atleti si fermarono appena toccata quella misura. È il caso di dire.. Irraggiungibile.
Medaglia d’argento – La seconda incredibile storia che merita un posto sul podio è invece quella della sfida nella finale di salto in lungo tra “il figlio del vento”, Carl Lewis, e Mike Powell, “il folletto di Philadelphia”, ai mondiali di Tokyo nel 1991. Lewis era sostanzialmente considerato una semidivinità dell’atletica, unico uomo insieme a Jesse Owens in grado di portare a casa quattro ori in una singola edizione olimpica (Los Angeles 84) e di vincere la gara del lungo per quattro edizioni consecutive, dall’84 al 96. Powell dal canto suo non aveva l’eleganza, la velocità e la potenza dell’avversario, ma saltava come pochi. Arrivò a quella gara senza essere riuscito a battere il rivale una sola volta in tutte le precedenti sfide. La gara in se assunse toni leggendari, perché il re infilò una serie progressiva di salti forse mai ripetuta nella storia, arrivando al terzo tentativo addirittura a superare di un centimetro il record mondiale di Bob Beamon, realizzato (in altura) a Città del Messico nel 1968. Il record, 8,90m, non crollò solo per il fatto che durante il salto di Lewis il vento era leggermente più alto del limite consentito, ma Carl aveva la gara in pugno. Beamon dal canto suo aveva realizzato due nulli su tre salti, con un 8,58 buono per staccare gli altri comuni mortali, spettatori non paganti di quella sfida epica, ma non per impensierire sua maestà. Al quarto salto però la svolta: col vento che calò quasi all’improvviso come a voler trattenere anche lui il fiato, e con il piede appoggiato al punto giusto, Powell si catapultò nella storia. Toccando terra alla distanza di otto metri e novantacinque centimetri, aveva superato in un colpo solo Lewis, Beamon e se stesso. L’avversario non seppe fare di meglio, pur toccando negli ultimi due tentativi quota 8,87 e 8,84. Misure clamorose, ma per una sera non sufficienti a garantirgli la medaglia d’oro.
Medaglia d’oro – Il primo posto di questa totalmente arbitraria classifica però, se lo prende un uomo che nel corso della sua carriera è riuscito più di tutti ad elevarsi, sia fisicamente che metaforicamente, talmente in alto che forse gli sarebbero servite giusto un paio di ali di cera e poi chissà dove sarebbe arrivato. Si chiama Serhij Nazarovyč, ma più tardi tutti “anglofonerizzeranno” il suo nome in Sergej, e dal nome capirete che non nasce nell’America delle grandi opportunità o nella Cuba dalle spiagge caraibiche. Viene dalla fredda Luhansk, sud est dell’Ucraina, e dall’età di nove anni decide che quello sport dove si salta con il bastone decisamente gli piace. Non sono tempi facili i primi anni settanta nella ex Unione Sovietica, specie se nasci (1963) in una regione che con Mosca e dintorni vorrebbe avere a che fare relativamente. Lo sport lo spinge lontano da casa, nella grande Donetsk, dove con il suo allenatore affina e migliora giorno dopo giorno la sua tecnica e il suo stile. Sì perché saltare con l’asta è maledettamente complicato. Serve la velocità, la spinta, la forza delle braccia e quella dell’ultimo colpo di reni. Serve la leggerezza di poter andare sempre più in alto, e il coraggio di guardare per un istante verso il basso. Con le gambe che si issano verso l’alto fino a trasformare tutto il proprio corpo in una specie di freccia che mira al cielo. Quando nel 1983 vince il suo primo meeting a Helsinki, la sensazione personale è quella di chi finalmente inizia a raccogliere i frutti del sudore di una vita, ma per gli addetti ai lavori il suo 5,70 è solo una buona misura e nulla di più. Due anni dopo invece, la storia viene riscritta. Semplicemente. Il 13 luglio del 1985, a Parigi, scavalca quella che secondo gli addetti ai lavori era a tutti gli effetti una misura insuperabile: il muro dei sei metri.
La notizia, anche senza siti web e social network, fa il giro del mondo. Per molti è nata una nuova stella dell’atletica leggera. Per qualcun altro è solo l’estemporaneo risultato della classica meteora di passaggio. A questi scettici Bubka, perché è di lui che come avete già intuito stiamo parlando, risponde superando quell’altezza per ben quarantatré volte in carriera, andando a migliorare il proprio record del mondo (rigorosamente un centimetro alla volta, come ricordava Al Pacino nel suo celebre discorso nel film “Ogni maledetta domenica”) per trentacinque volte. TRENTACINQUE. Equamente suddivise tra record all’aperto (17 volte, primato di 6,14. Record tra l’altro un po’ “italiano” perché stabilito al Sestrieré) e indoor (18 volte, record a 6,15m). Tra il 1984 e il 1988 migliora il suo record di 21cm. Più di quanto fosse mai stato fatto nei dodici anni precedenti. Un dominio incontrastato ed entusiasmante, con un’unica dolorosa eccezione: i giochi olimpici. Bubka infatti vinse nove ori mondiali ma solo un titolo olimpico, a Seul nel 1988. Su di lui già a quei giochi c’erano grandi aspettative, visto che poco tempo prima aveva portato il record a 6,06 e tutti speravano in quella occasione di vederlo volare oltre quota 6,10. Si fermò a 5,90, misura comunque sufficiente a garantirgli l’oro. A Barcellona nel 1992 gli andò molto peggio. Fallita per due volte la misura di 5,70 si caricò probabilmente di ansia e tensione, e provando a superare al terzo tentativo i 5,75 fallì per la terza volta venendo clamorosamente eliminato dalla lotta per il podio. I “soliti” esperti decretarono che quello era il segnale del l’inizio della fine, ma anche in questo caso la risposta furono nel giro di due anni i suddetti record mondiali, indoor nel 1993 e all’aperto nel 1994. Nel 1996 si qualificò per i giochi di Atlanta, ma un infortunio lo costrinse a guardare le gare dal divano di casa. Nel 2000 a Sidney infine, ancora una volta la maledizione dei giochi gli impedì di superare quei 5,70 che tanto agevolmente aveva scavalcato altre volte, relegandolo ancora fuori dalla lotta per il podio. Ritiratosi nel 2001 e tuttora detentore di entrambi i record sopracitati, Bubka ha comunque continuato a fare tantissimo per il mondo sportivo e non solo. Comitato Olimpico Internazionale nel 1999. Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Ucraino. Vice-Presidente della IAAF. Membro del Comitato Esecutivo e presidente della Commissione Atletica del CIO. Membro del Parlamento e Ministro ucraino, con la carica di Primo Consulente del Ministero della Gioventù, della Cultura e dello Sport. Membro fondatore della Laureus World Sports Academy. Sostenitore del programma di sviluppo delle Nazioni Unite, di quello dell’Organizzazione mondiale della Sanità e della Lotta contro la tubercolosi, dell’UNESCO, del programma a sostegno dei bambini vittime del disastro ambientale di Chernobyl e del Coordinamento Regionale e Nazionale per la protezione sociale dei disabili e dei bambini orfani. A fronte di tanto impegno sociale, viene da pensare che i fallimenti olimpici, questo tornare ogni quattro anni a sentirsi umano e battibile, gli abbia impedito anche solo di accennare all’idea di mettersi quel paio di ali di cera che molti sportivi sfoggiano con malcelata arroganza, e mi fa dire la cosa che sembra la più difficile da associare al più grande saltatore di tutti i tempi. Cioè che nonostante una carriera intera pronta a smentirlo, Bubka sia davvero rimasto un uomo coi piedi per terra.
Marco Minozzi