Il racconto dell’evoluzione: In principio era la scimmia, anzi una miriade di scimmie

Pubblicato il 12 Febbraio 2014 alle 14:26 Autore: Marco Caffarello

In occasione del Darwin Day che ricorre nella giornata di oggi, una nuova teoria sull’evoluzione dell’uomo; contrariamente a quanto si è sempre immaginato, Giorgio Manzi, docente di Paleoantropologia presso l’Università di Roma La Sapienza, ritiene che l’evoluzione umana sia tutt’altro che lineare, ma deve essere intesa invece come un groviglio di specie, ognuna delle quali impegnata nella lotta per la sopravvivenza.

Quando nel 1859 Charles Darwin scriveva nella penultima pagina del suo capolavoro ‘L’origine della specie’, “la teoria dell’evoluzione dovrebbe far luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia” probabilmente egli già sapeva quella che sarà la verità dell’origine dell’uomo, sebbene non poté mai rivelarla per evidenti ragioni di opportunità e di censura. Ebbene, dopo quasi un secolo e mezzo dalla pubblicazione del capolavoro darwiniano, tanto importante da generare nuove branche scientifiche quali ad esempio la paleoantropologia, il filosofo dell’evoluzione non immaginava che egli, non solo intuì quello che è il ‘meccanismo segreto’ che muove l’evoluzione delle specie, siano esse vegetali o animali, organizzato secondo quel principio di ‘selezione naturale‘ che consente solo alle specie meglio adattate di evolvere, ma che fu il profeta di quella che è poi la verità della nostra origine, sebbene con qualche secolo di ritardo.

Da quando infatti nel 1856 fu ritrovato nei pressi della Valle di Neander il primo scheletro umano passato alla storia come ‘l‘uomo di Neanderthal’, lo sviluppo della paleoantropologia, ossia di quella branca della scienza che studia i fossili umani per carpirne il cammino evolutivo, non si è più arrestato, anche grazie ai numerosissimi ritrovamenti di fossili e oggi alle altissime tecnologie adoperate che permettono di riconsiderare quella che è stata la vera evoluzione della nostra specie. Diversamente dalla paleoantropologia del XIX secolo, la scienza di oggi non cerca più il classico ‘anello mancante’, ciò che ci ‘unirebbe’ al mondo delle scimmie, non guarda più all’evoluzione della nostra specie come ad una ‘trafila’ lineare rappresentata dalla classica sequenza di ‘ominidi’ che passeggiano l’uno dietro all’altro via via progredendo sempre più, ma sarebbe più giusto dire, come spiega Giorgio Manzi, docente di Paleoantropologia, Ecologia umana e Storia naturale dei primati presso l’Università di Roma La Sapienza, direttore del Museo di Antropologia ‘Giuseppe Sergi’,ed autore del saggio Il grande racconto dell’evoluzione umana edito da Il Mulino, che l’evoluzione dell’uomo assomiglia più ad un ‘cespuglio‘, ad una selva o ‘groviglio’ di specie antropomorfe distinte, ognuna delle quali impegnata nell’ineluttabile lotta per la conservazione di sé.

La storia evolutiva non è  quindi una sequenza di antenati, una trafila evolutiva lineare, ma deve essere guardata come ad un cespuglio, perché così come un cespuglio è costituito da un insieme di tronchetti l’uno indipendente dall’altro, alcuni dei quali andranno persi, mentre altri si svilupperanno e daranno vita, magari, ad un albero, allo stesso modo la nostra specie non è che l’insieme di un groviglio di specie antropomorfe da cui poi la ‘vittoria’ dell’Homo Sapiens. Secondo questo presupposto è un errore ritenere che esista un rapporto di continuità tra l’homo di Neanderthal e l’Homo Sapiens, così come poi siamo soliti ritenere: l’Homo Sapiens differentemente dall’uomo di Neanderthal ha sviluppato forme morfologiche, come la particolare rotondità del cranio, tali che gli hanno consentito di conservarsi e di evolvere.

A differenza dell’Homo di Neanderthal che aveva sì un grande cervello ma una calotta cranica troppo stretta, l’Homo Sapiens ha infatti sviluppato un cranio particolarmente rotondo tale da assecondare perfettamente la morfologia dell’organo, un escamotage che gli ha dunque consentito di superare il suo ‘antenato’ e di conservarsi, sviluppare il linguaggio, costruire utensili ed esprimersi in forme artistiche. Non a caso Manzi parla nel suo saggio di una seconda origine, perchè la rotondità del cranio, insieme al bipedismo, sarà ciò consentirà all’uomo di essere Sapiens.

Certo ciò non esclude che la nostra evoluzione non abbia vissuto tappe fondamentali, come quella che avvenne circa 6 milioni di anni fa, allorché i nostri ‘antenati’ si staccarono definitivamente dai primati, o come quella ‘seconda origine’, come la definisce Manzi, che avvenne circa 200mila anni fa, ossia la nascita dell’Homo sapiens, da cui ha un senso parlare di Storia così come poi noi la intendiamo, ma il punto è che ritenere l’Homo sapiens un risultato evoluzionistico da far discendere dalle scimmie, è un errore tanto concettuale e filosofico, quanto più specificatamente paleoantropologico; l’homo sapiens non discende da una scimmia ma da un antenato, un ominide bipede, che ha in comune con essa.

Il vero presupposto della nostra origine è quindi lo sviluppo del Bipedismo, la facoltà di restare in piedi eretti su sé stessi ed utilizzare le mani, gli arti rimasti liberi, per fare altro dal semplice spostarsi. I primi esemplari, anche documentati dal ritrovamento di alcuni fossili, sono gli Australopithecus che risalgono a circa quattro milioni di anni fa; gli Australopithecus, e specie affini, si diversificarono e adattarono progressivamente in vaste aree del continente africano. Possiamo figurarceli un po’ come degli scimpanzé, comunque bassini, incurvati e pelosi. Il passo successivo sarà la conquista graduale della postura eretta e dell’allargamento della scatola cranica, requisiti necessari per il grande salto evolutivo. Esemplari di uomini dal cervello relativamente piccolo ma dalle gambe buone, con in mano una prima rozza dotazione di utensili, risalgono a circa un milione e mezzo di anni fa (non più solo sul territorio africano, ma disseminati anche nel Vicino e Medio Oriente, in certe aree dell’Asia e dell’Europa); l’adattamento alle diverse tipologie climatiche ha discriminato caratteristiche confluite poi in specie distinte (si pensi ai Neanderthal). Gli homo sapiens propriamente detti cominciarono a profilarsi solo all’incirca 200mila anni fa, prima in Africa e poi in altri territori.

Certo le scimmie rappresentano un presupposto necessario essendo le mani una caratteristica di ogni primate, ma ciò non significa che la nostra evoluzione abbia un contatto diretto con loro, un filo rosso che collega la nostra realtà a quella di altre evoluzioni di specie. Dunque quando si guarda al ‘mondo delle scimmie’, dei primati, più che ritenerle come una delle tappe evolutive, o meglio l’inizio stesso dell’evoluzione, bisogna guardarle come ad un necessario presupposto, un preludio, ma non l‘anello mancante‘, perchè la storia evolutiva non è, ancora una volta, una sequenza lineare.

Rimane, e rimarrà probabilmente per molto tempo ancora, l’interrogativo della scienza su quali cause hanno permesso  a scimmie antropomorfe del tardo Miocene di acquisire caratteristiche che faranno da preludio poi all’origine dell’uomo, come il bipedismo e la facoltà di utilizzare le mani, ma ritenere che queste siano coloro da cui poi deriva il ‘bipedismo’ come tale, è ancora una volta un errore. La scienza dimostra infatti che il bipedismo è stato acquisito dalle specie più volte e da più forme, non sempre in relazione diretta con quelli che sarebbero poi i nostri antenati; si pensi ad esempio ai Lemuri, scimmie tutt’ora residenti nel Madagascar, che stanno tranquillamente in posizione eretta, e che da un punto di vista evoluzionistico rappresentano persino un antenato delle scimmie, ma non per questo si ritiene che i Lemuri siano all’origine dell’uomo.

Il genere Homo, dunque, è anch’esso un groviglio, una selva, un cespuglio costituito da rametti ognuno dei quali indipendente dall’altro; cosa ci abbia realmente favoriti rispetto ad altre specie è difficile dirlo, combinazioni fortunate senz’altro, sempre ammesso poi che si possa considerare una fortuna essere uomini, ma questa è un’altra storia.

 

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