Un uomo che con la sua vicenda politica rappresentava, suo malgrado, l’anomalia italiana.
L’ultima volta che ho visto Oscar Luigi Scalfaro era meno di un anno fa. Stavo partecipando alla presentazione di una mostra fotografica sul fin troppo dimenticato ex presidente del consiglio Adone Zoli, e il senatore a vita era tra i relatori del convegno assieme al presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo. In quell’occasione, con parole commosse ma al tempo stesso piene di riconoscenza, Scalfaro raccontava del suo vecchio compagno di partito, mancato collega all’Assemblea Costituente, che invitò nella veste di Guardasigilli in un centro penitenziario nei pressi di Novara.
[ad]In quell’occasione Zoli, commosso dalla visita e spronato dal giovane Scalfaro ad un discorso pubblico, pronunciò una frase semplice ma dalla portata così universale da apparire a tratti inquietante per gli interrogativi che può porre: “Personalmente mi sono sempre più concepito come il ministro della grazia che come quello della giustizia”.
Scalfaro allora era già un magistrato e un promettente uomo politico. Ma disse che quella frase lo turbò così tanto da fargli vedere sotto una luce nuova il ruolo di legislatore e di magistrato e gli dava anche una diversa visione del mondo così efficacemente descritto da un precetto pienamente cristiano.
Era infatti un democristiano conservatore, Oscar Luigi Scalfaro. Non inquadrabile in nessuna componente particolare, era però figlio di quella terra piemontese che aveva dato i natali ad un democristiano come Giuseppe Pella, quel “liberista cristiano” capace di coagulare idealmente su di se tutte le istanze destreggianti del partito cattolico.
L’uomo di cui si ricordavano tutti per la triste vicenda legata alla moglie che morì poco dopo avergli dato la sua unica figlia Marianna, sempre accanto al padre nel corso del settenato. E anche l’uomo che di fronte ai famosi tribunali speciali prendeva la parola, in quanto magistrato, per sottolineare come fosse contrario alla pratica della pena di morte non ancora abolita nei mesi precedenti alla nascita della Costituente.
Una personalità politica di cui tutti ricordavano un certo “puritanesimo” (epico l’episodio della schiaffo dato in un ristorante romano ad una donna rea di esibire un troppo generoso decolté), ma al tempo stesso uno spirito istituzionale, soprattutto a seguito della sua nomina a ministro dell’interno, che in pochi osavano osteggiare politicamente in maniera netta.
E’ stato il Presidente della mia infanzia. Un modello che per forza di cose era destinato a riproporsi ogni settennato. Un metro di paragone difficile da accantonare del tutto.
Quasi un stereotipo, a tratti. Come se tutti i presidente della Repubblica dovessero avere la “r” moscia. E come se, vista l’alta onorificenza della carica, tutti dovessero disporre di un doppio nome, come un casato nobiliare di stampo laico e repubblicano. Del resto nel 1999 si passò da Oscar Luigi a Carlo Azeglio.
Eletto Capo dello Stato dopo 16 scrutini e una lunga trattativa politica sbloccata solo dagli eventi stragisti del maggio del 1992, Scalfaro si trovò catapultato dalla Presidenza di Montecitorio al Quirinale nel peggior periodo del paese dal dopoguerra.
Tangentopoli in corso, le stragi mafiose con la morte dei giudici Falcone e Borsellino, il crollo dei partiti conseguenti agli scandali giudiziari e la crisi economica che portò ad una necessaria quanto mai traumatica svalutazione della lira.
(per continuare la lettura cliccare su “2”)
[ad]Scalfaro applicò sempre il suo mandato all’insegna del parlamentarismo, espressione massima di quella Costituzione che da costituente aveva contributo a scrivere. Per portare avanti quella forma di governo in una nuova fase politica che pur avendo mutato partiti e parte della leadership non aveva subito quelle modifiche costituzionali che avrebbero consentito un cambio di registro.
E allora appariva, in maniera quanto mai strumentale e per motivi storicamente non acclarati, come il “Presidente del ribaltone,” perché non avrebbe sciolto le camere nel 1994 a seguito della crisi del primo governo Berlusconi. Ignari del fatto che, se non si sciolsero le camere, era perché a quanto pare c’era una maggioranza alternativa a cui tra l’altro Berlusconi e Fini consentirono un’astensione attraverso la fiducia al primo governo Dini.
In queste turbolenze si collocano le sue famose esternazioni che in questi giorni vengono riproposte insistentemente: da “io non ci sto’!” a “l’Italia risorgerà” diede di fatto vita ai “governi del presidente” (Ciampi, 1993) dove il Capo dello Stato, conscio del vuoto politico, si prendeva una responsabilità in più di fronte alla società e al popolo.
Si parlò anche di un rinnovo del settennato per lui, nel 1999. Non se ne fece nulla. E anche questo atto fu in parte d’apripista, se consideriamo il comunicato stampa di Ciampi che nel 2006 declinava un’analoga ipotesi perché alla fine è importante avere un ricambio marcato ogni sette anni anche e soprattutto al Quirinale.
Scomparve dalla scena per qualche anno. Lo incrociai una volta in televisione, stupendomi della cosa, ad una presentazione di una mostra accanto a Ciampi. Ebbe un battibecco in Senato col premier Berlusconi che molto diplomaticamente lo mandò a quel paese.
Poi nel 2006 la ricomparsa in scena, con la battaglia contro le modifiche costituzionali della cosiddetta “devolution”. Una battaglia vinta nel bel mezzo dell’estate del 2006, quando l’Italia batteva agli ottavi di finale dei mondiali di calcio la nazionale australiana, e il paese si abituava ai primi mesi di presidenza Napolitano, suo successore alla Presidenza della Camera nel 1992.
Nel 2007 il sostegno nemmeno troppo implicito alla nascita del Pd espressa attraverso la presidenza onoraria dei comitati Veltroni in giro per l’Italia. Era del resto una delle poche tessere onorarie del partito.
E in fondo è questo il messaggio politico più forte che, assieme all’abnegazione istituzionale, Scalfaro ci lascia: il paradosso di un uomo conservatore, un “democristiano di destra”, che però era di fatto considerato un padre nobile del centrosinistra riformista. Forse un paradosso, ma non era colpa sua.
Lui aveva capito tutto. Dall’inizio alla fine. Erano tutti gli altri che avevano le idee un po’ troppo confuse.