Elezioni e petrolio: c’è la Norvegia del petrolio che prima o poi finirà e c’è la Svezia con gli occhi puntati alle elezioni di settembre. In mezzo c’è la Danimarca, dove il Partito Popolare Socialista prova a uscire dall’angolo con un nuovo leader.
La Svezia è concentrata da settimane su quello che i media hanno già ribattezzato il ‘super-anno elettorale’: e questo la dice lunga sull’attesa che si respira a Stoccolma. Prima le elezioni europee di maggio, poi le politiche di settembre.
Se fosse una partita di calcio, i bookmaker avrebbero probabilmente già chiuso le scommesse: il centrosinistra attualmente all’opposizione è nettamente avanti. Ogni nuovo sondaggio è un colpo alle speranze di rielezione per il premier Reinfeldt: i numeri apparsi domenica scorsa davano il governo di centrodestra in ritardo di 16,8 punti rispetto all’opposizione. Malissimo il Partito di Centro (al 2,8 per cento, minimo storico), male anche i Moderati del premier, al 22,8.
Il centrosinistra sembra lanciatissimo verso la vittoria elettorale: 34,9 per cento i laburisti, 8,2 per cento il Partito della Sinistra, 9,7 per cento i Verdi. Tre partiti, tutti in salute. Se aggiungiamo che i Democratici Svedesi (formazione di destra fuori dall’alleanza di governo) succhiano il 9,5 per cento dell’elettorato, le speranze per Reinfeldt e la sua squadra sono ridotte al lumicino.
Domenica scorsa il quotidiano Svenska Dagbladet non ci girava intorno: a Reinfeldt serve un miracolo. Ricordare quanto accaduto alle elezioni del 2010 serve a poco: anche in quel caso il centrodestra era in ritardo, ma da febbraio in poi colmò il distacco riuscendo a strappare un secondo mandato. Stavolta la situazione è più complicata: i numeri sono impietosi e la forbice tra i due blocchi si allarga di settimana in settimana.
Dall’altra parte della barricata i laburisti si godono il momento e lo interpretano così: gli elettori hanno capito bene quali sono le priorità del partito socialdemocratico (nell’ordine: lavoro, scuola, welfare) e le condividono.
In Danimarca intanto c’è chi prova a rimettersi in moto: è il Partito Popolare Socialista, al quale non è servito un congresso straordinario per scegliere il proprio leader. A guidare il partito in questa fase difficilissima sarà Pia Olsen Dyhr, nata nel 1971 a due passi da Copenhagen: l’unica ad essersi candidata.
Allo scadere del termine fissato per giovedì scorso, nessun altro si è fatto avanti: cosa insolita, per un partito che sin dalla sua fondazione aveva sempre visto delle sfide per la leadership. Molti nomi di prestigio hanno evitato di entrare nella partita. Altri membri del partito meno conosciuti non sono stati in grado di formalizzare la candidatura.
Pia Olsen Dyhr ha alle spalle gente che conta, nel partito: è sostenuta da Villy Søvndal (leader fino al 2012) e dagli ex ministri Holger K. Nielsen e Jonas Dahl. Ma questo non le renderà meno difficile il compito di ricostruire un partito alle prese con una crisi di nervi e di consensi.
In Norvegia si guarda avanti. All’ordine del giorno tornano le prospettive di crescita per i prossimi anni, i problemi che andranno affrontati, le soluzioni da adottare. La scorsa settimana a parlare è stato Øystein Olsen, governatore della Banca centrale norvegese, che ha ricordato come il motore dell’economia del paese stia rallentando.
Niente di preoccupante per ora, e in fondo il nocciolo della questione è un altro: il petrolio che ha reso ricca la Norvegia è destinato a finire e prima o poi il tessuto economico del paese andrà riconvertito. Guai a farsi trovare impreparati, dicono dalle parti di Oslo.
Ci vorranno anni, Olsen lo sa, come sa che nel prossimo futuro per la Norvegia potrebbe essere sempre più difficile tenere bassa la disoccupazione e stabile la crescita. Facendo un salto indietro di dodici mesi, ci si ritroverebbe di fronte allo stesso quadro: stessa persona (Øystein Olsen) e stessi suggerimenti (pensare al dopo-petrolio). Rimodellare la propria economia è la sfida principale che Oslo ha di fronte a sé per gli anni a venire.
Antonio Scafati