Le lancette dell’orologio giallorosso scorrono ormai da settembre 2019, ma domani potrebbero fermarsi. La data cerchiata in rosso sul calendario di Palazzo Chigi è quella di mercoledì 9 dicembre, quando il premier Conte è atteso in Parlamento per le comunicazioni in vista del Consiglio Europeo. Questa volta, però, la coalizione di governo è una polveriera e si teme che le micce del MES e del Recovery Fund facciano saltare in aria l’esecutivo. Il tempo a disposizione del Presidente del Consiglio sta per esaurire: rimangono meno di ventiquattr’ore per annullare il rischio e mantenere le redini del Paese.
Lunedì 7 dicembre ore 13: TENSIONI A PALAZZO CHIGI
Il primo ordigno da disinnescare prende il nome di NextGenerationEU, o come viene chiamato dalla politica nostrana Recovery Fund. Nonostante le ombre del veto di Ungheria e Polonia, la Commissione UE probabilmente riuscirà ad aggirare il problema e, di conseguenza, l’Italia dovrebbe riuscire ad accaparrarsi 209 miliardi tra fondo perduto e prestiti.
Come al solito, il problema principale riguarda la gestione di questa pioggia di denaro e, soprattutto, la definizione dei progetti. Ed è su questo punto che le tensioni interne alla maggioranza rendono il clima incandescente. Da un lato, il premier, con l’accondiscendenza del Movimento 5 Stelle, vorrebbe concentrare le decisioni nelle sue mani, istituendo una task force che risponderebbe direttamente a lui. Nel mezzo, il Partito Democratico, pur non amando l’idea del premier accentratore, sembra voler cedere per evitare ulteriori frizioni, consolato dalla presenza nella task force del ministro Gualteri. Dall’altro lato della barricata, i renziani minacciano lo strappo, accusando Conte di volerli escludere dalla governance dei fondi europei.
La questione doveva essere affrontata nel Consiglio dei Ministri di ieri, inizialmente convocato per le 9 e poi rimandato alle 13 per le continue polemiche. Teresa Bellanova, capodelegazione di Italia Viva nell’esecutivo, ha lamentato per tutta la mattinata di aver saputo del Cdm di lunedì dalla stampa, all’oscuro dei reali processi decisionali. “Non voteremo nessun documento al buio – ha avvertito – non possiamo votare a scatola chiusa né accettare che sia una maggioranza nella maggioranza. Da una settimana chiediamo le carte per poter orientare la valutazione mia e del mio gruppo politico. Non ho ricevuto neanche un rigo. Non si può sempre forzare oltre il consentito“. La riunione doveva essere risolutiva, ma la notizia della positività al Covid della titolare del Viminale, Luciana Lamorgese, ha costretto ad interrompere immediatamente i lavori. Dopo aver accertato la negatività del Presidente del Consiglio, la discussione era stata rimandata ad oggi, ma da fonti della maggioranza si apprende che il tutto è stato rinviato ai prossimi giorni. A pesare sono stati i nodi non ancora sciolti durante il pre consiglio, che sarebbe dovuto servire a placare le scintille e invece non ha fatto altro che confermare come la bomba sia pronta per esplodere. Lo stesso Renzi ai microfoni di Tg2 ha ammesso: “Se le cose rimangono come sono voteremo contro. Per noi un ideale vale più di una poltrona. Circa il rischio di una rottura, spero proprio di no, ma temo di sì“.
Mercoledì 9 dicembre ore 9.00: LA PROVA A MONTECITORIO
La vera sfida di Conte sarà mercoledì. Il premier dovrà affrontare due round a distanza di poche ore l’uno dall’altro e senza possibilità di sconfitta. Di prima mattina, il capo del governo dovrà spiegare all’emiciclo di Montecitorio le ragioni che spingono il governo italiano ad approvare la riforma del MES al prossimo Vertice Euro. I deputati non dovranno votare sulla sua approvazione, né tantomeno sulla richiesta di accedere ai suoi fondi. Tuttavia, la parola MES è ormai il tabù della politica italiana ed evocarlo equivale a creare spaccature sia tra le file della maggioranza, che tra i banchi dell’opposizione.
Per Conte sarà importante approdare al tavolo di Bruxelles con un mandato chiaro in vista del rush finale sul negoziato sul Recovery Fund. Come spiegano fonti dell’Europarlamento, porre veti sul MES e attaccare chi, come Polonia e Ungheria, continua ad opporsi al Recovery Fund sarebbe un “no sense” che azzopperebbe la strategia italiana. Dunque, il premier ha bisogno di un voto nettamente favorevole, cosa ben difficile da raggiungere visti i numeri risicati in entrambi i rami del Parlamento.
La forza politica che sta vivendo un vero e proprio psicodramma è il Movimento 5 stelle. Una vasta fronda, che potrebbe contare fino a 52 deputati e 17 senatori, ha anticipato il proprio dissenso, suscitando non poche inquietudini in casa pentastellata. “Chi vota no vota contro una decisione presa dal gruppo M5S“, minaccia il capo politico Vito Crimi che in queste ore, insieme a Luigi di Maio, stanno tentando di recuperare il voto dei dissidenti. Eppure lo scontro di questi giorni, rischia di diventare il prodomo di una scissione. Un possibile argine potrebbe essere il voto su una risoluzione che espliciti in maniera inequivocabile la rinuncia all’utilizzo del MES da parte dell’Italia, compresi i 37 miliardi di aiuti sanitari. Questo, però, scatenerebbe le ire di PD e Italia Viva, da tempo schierati per la richiesta di apertura di una linea di credito.
L’opposizione, invece, appare compatta sul No alla riforma, nonostante i malumori dei forzisti che temono possibili franchi tiratori. I tre indagati a Montecitorio sono Brunetta, Polverini e Napoli, oltre alla componente di Toti e qualche altro membro dell’ex UdC.
Restano ancora da capire le intenzioni dei vari indipendenti appartenenti al Gruppo Misto che, probabilmente, potrebbero soccorrere il premier per evitare lo scenario peggiore.
Mercoledì 9 dicembre ore 16.00: LA BATTAGLIA DI PALAZZO MADAMA
Se il passaggio alla Camera appare impegnativo ma non impossibile, in Senato lo scenario potrebbe trasformarsi nelle famigerate “Forche Caudine”. Palazzo Madama è sempre stato il tallone d’Achille dei giallorossi, ma tra i dissidenti pentastellati e il mancato aiuto degli azzurri, questa volta la situazione è decisamente più complessa.
A conti fatti, il premier deve sperare nel soccorso dei centristi per raggiungere il magico 50% + 1. Tra assenze strategiche e sorprese, il governo potrebbe contare sul gruppo di Calenda-Bonino, sui tre senatori di Cambiamo – Quagliariello, Berutti e Romani -, su alcuni esponenti di UdC, sul senatore Cangini di Forza Italia e, soprattutto, sugli ex M5S confluiti nel Gruppo Misto. I senatori a vita molto probabilmente non parteciperanno al voto, abbassando così la quota di 161 richiesta. La maggioranza numerica sul MES, dunque potrebbe essere garantita, mentre quella politica entrerebbe sicuramente in bilico.
TRATTATO DI PACE O ARMISTIZIO?
Al ritorno da Bruxelles, il premier dovrà in ogni caso confrontarsi con una maggioranza instabile e fortemente compromessa, sempre che ci sia ancora un governo ad aspettarlo. È ormai chiaro a tutti che così non è possibile proseguire. Lo ripetono da mesi i capigruppo di Italia Viva e PD, in buona compagnia del segretario Zingaretti che confessa: “Non dobbiamo tirare a campare ma essere efficienti”. Le divergenze sono tante, forse troppe per costruire un progetto di governo in grado di resistere fino a fine legislatura. Il vaso di Pandora di Palazzo Chigi è stato scoperchiato proprio con la questione del Fondo Salva Stati, liberando i dossier del MES sanitario, del Recovery Plan, dei Decreti Sicurezza e di molte altre mine che, da qui al 2023, potrebbero far saltare in aria il governo.
A questo giro, però, si aggiungono i pessimi umori del Quirinale, stufo dei continui litigi tra le forze di governo. Dal Colle il Presidente Mattarella avverte che, in caso di voto contrario alla riforma del MES, l’epilogo sarebbe solo uno: le elezioni anticipate. Quello del Presidente della Repubblica è un ultimatum molto chiaro: o si trova una sintesi o è meglio mettere fine all’esperienza di governo. Conte, quindi, si trova davanti ad un bivio: da una parte, siglare un trattato di pace tra le varie anime dell’esecutivo e continuare fino alla fine della legislatura; dall’altra firmare l’armistizio e rassegnare le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato.