Il PD tra responsabilità e immobilismo

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Se c’è un mantra che il PD ha utilizzato negli ultimi anni della vita politica italiana, si è trattato certamente del tema della “responsabilità”.

Un concetto che come un martello ha forgiato e plasmato la figura attuale del Partito Democratico, e che ora che la formazione di Bersani si trova a far parte di una per quanto anomala maggioranza di governo rischia di far esplodere molte contraddizioni interne al partito, presenti dalla sua nascita ma sempre sopite dal ruolo di partito di opposizione che fino ad ora ricopriva il PD.

[ad]L’importanza del concetto della responsabilità (Noi siamo un partito di governo temporaneamente all’opposizione, diceva Bersani fino a non molti mesi fa) è un fattore cruciale nella psicologia della dirigenza del PD, reduce dall’esperienza del Governo Prodi e in generale di matrice post-comunista e succube delle campagne mediatiche di un avversario formidabile come Silvio Berlusconi.
Una fascia consistente dell’elettorato considerato storicamente non ostile alla sinistra ha comunque sempre fatto molta fatica a dare il voto alle formazioni progressiste in quanto considerate incapaci di proporre un’alternativa di governo. Si tratta di un tema su cui Berlusconi, giocando anche sulla provenienza comunista dei suoi avversari, ha impostato spesso con successo le sue campagne elettorali; e si tratta di un tema su cui la sinistra italiana ha perso in effetti gran parte della sua credibilità con l’esperienza del Governo Prodi II, in cui si è arrivati agli incresciosi episodi dei Ministri in piazza a manifestare contro il governo di cui facevano parte.

A partire dalla campagna elettorale del 2008, il Partito Democratico ha giocato le proprie carte sull’identità del partito di governo, nel tentativo di riconquistare un elettorato in quel momento deluso verso i partiti della sinistra radicale a scegliere una formazione che potesse offrire maggiori garanzie di tenuta, ma soprattutto nel tentativo di dare di sé un’immagine rassicurante a quella determinante fascia di elettorato moderato le cui oscillazioni determinano poi la vittoria nelle competizioni elettorali del Paese.

Tuttavia, le declinazioni pratiche in cui tale atteggiamento si è manifestato appaiono tutt’altro che incoraggianti. Il primo biennio di vita del PD fu caratterizzato dal “maanchismo” veltroniano, che da lodevole tentativo di conciliare differenti istanze generò un totale immobilismo del partito su pressoché qualsiasi tema a causa dell’incapacità di trovare una reale sintesi di vedute. Dopo la parentesi di Franceschini, la gestione Bersani apparve maggiormente concreta ma non in grado di cancellare l’immagine di un partito farraginoso, incapace di prendere posizione e meschino nello schierarsi dove soffia il vento. Le polemiche legate alla posizione del Partito Democratico in occasione dei trionfali referendum del 2011 è forse l’esempio più chiaro di questo fenomeno. Infine, e si giunge al presente, l’ambiguo sostegno offerto al Governo Monti con la rinuncia di Bersani a correre delle elezioni vinte in partenza appare, sotto la maschera della responsabilità nazionale, al contrario proprio una fuga dalle responsabilità di governo che il PD aveva tanto sbandierato nei mesi precedenti.

Il problema di fondo del Partito Democratico, il peccato originale che la formazione si porta dietro sin dalla fusione di DS e DL, è l’incapacità di scegliersi un target e di veicolare il relativo messaggio.
Il Partito Democratico, nella suo autorichiamo alla responsabilità e nel – non troppo efficace – tentativo di presentarsi come una formazione in grado di sostenere la prova di Palazzo Chigi, ha preteso di porsi come interlocutore e riferimento per l’intero Paese.

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[ad]Non deve quindi stupire che le insormontabili difficoltà nel conciliare punti di vista e istanze diametralmente opposti abbiano deprezzato e depotenziato l’offerta politica del partito; nel tentativo di non scontentare nessuno, il PD ha condannato sé stesso, almeno nei suoi primi anni di vita, all’inerzia politica.
Fatto forse ancora più grave, il PD ha rinunciato alla mission insita nella definizione stessa di partito, ovvero rappresentare una parte della popolazione e le sue richieste. In parte il problema deriva dalla nascita del tutto peculiare della formazione: trattandosi di una fusione dall’alto di due forze preesistenti e di antichissima estrazione, è mancato quello zoccolo duro ideologico che porta un movimento oltre quella soglia critica necessaria per trasformarlo in partito di rilevanza nazionale (si veda ad esempio la Lega Nord). Per di più, le due forze che hanno dato origine al PD erano rivali ai tempi della Prima Repubblica, e fondendosi hanno dovuto mettere da parte una fetta consistente del loro patrimonio ideologico fondativo, senza tuttavia sostituirlo con un’adeguata sintesi.
Mancando quindi la base ideologica, il PD non è stato in grado di seguire il naturale percorso evolutivo di un partito, ovvero la propugnazione e la difesa del suo corpus di idee in modo da renderlo maggioritario nel Paese; al contrario, il PD si è via via aperto a settori sempre più ampli della società (le candidature delle elezioni 2008 sono il più fulgido esempio del fatto) fino a scivolare nell’immobilismo.

Sebbene la gestione di Pierluigi Bersani abbia in parte mitigato questo scenario, a livello percettivo il Partito Democratico è ancora visto come una formazione molle e senza idee, né sarà facile modificare tale sensazione nell’attuale situazione di appoggio al Governo Monti.
Il Partito Democratico è una formazione giovane – sebbene politicamente parlando non lo siano i suoi esponenti di spicco – eppure questa non può essere una scusa per non avere una vera posizione politica.
Se il richiamo alla responsabilità porta all’inclusione di ogni istanza sociale e quindi all’immobilismo, è giunto il momento che il PD ponga dei confini, rinunci alla conquista di fasce elettorali incompatibili tra loro e si dia un’identità ed una collocazione politica precisa. Solo in quel momento potrà davvero definirsi un vero partito di governo.