Dov’è finito lo Stato Sociale?
Un rapporto del Consiglio d’Europa redatto a gennaio accusa l’Italia di trascurare eccessivamente politiche di Welfare. Molti i capi d’accusa contro il Bel Paese, dalla mancanza di un reddito minimo garantito, alla sanità pubblica, dalla realtà discriminante nelle assunzioni al lavoro, al precariato dominante.
C’era una volta il Welfare: direbbe così un nonno ai suoi nipoti, sopratutto poi se in cerca di un lavoro. E sì, perchè rispetto all’Italia dei padri costituenti, del boom economico, all’Italia della prima Repubblica, tanto biasimata ma a ben vedere per alcuni aspetti decisamente più ‘avanti’ rispetto a questa Italietta così in panne, la realtà del cd. Stato Sociale, che garantiva a tutti i cittadini diritti inalienabili e sostegno economico per chi ne avesse bisogno, oggi sembra proprio una favola di altri tempi.
Non è un caso infatti (una notizia questa passata in verità un po’ in sordina) che solo il mese scorso, a gennaio, il Consiglio Europeo abbia rimproverato l’Italia di trascurare completamente aspetti costitutivi di ogni buona politica sociale, e, una volta tanto, le raccomandazioni scritte dall’UE andrebbero in realtà analizzate con molta attenzione, non fosse che dalla loro lettura è possibile rivelare tutte quelle mancanze di garanzia e assistenza sociale di cui il Bel Paese si è macchiato, non solo agli occhi e nella considerazione del popolo sovrano, ma anche in quella dei nostri ‘competitor’ europei.
Rispetto agli anni d’oro della prima Italia repubblicana, oggi il Bel Paese è infatti completamente insufficiente, parole del Consiglio d’Europa, a garantire pensioni minime adeguate all’aumento del caro vita che si è registrato negli ultimi anni, così come ad erogare sussidi per la disoccupazione affidabili a fronteggiare spese quotidiane e necessarie, un’ assistenza sanitaria capace di tutelare la salute di tutti, nel fornire ai lavoratori idonee normative di sicurezza sul lavoro( le statistiche degli ultimi anni sulle cd. morti bianche riportano numeri impressionanti), nonché a tutelare la cittadinanza con l’ausilio di un reddito minimo garantito, così come già avviene negli altri Stati d’Europa.
Riguardo a quest’ultimo aspetto l’Italia, insieme alla Grecia, è infatti il solo Paese dell’UE ad aver accolto, ma mai recepito, l’istanza del Consiglio d’Europa 92/441, una raccomandazione del parlamento europeo del lontano1992, che in pratica già all’indomani della firma del patto di Maastricht, storicamente l’accordo con il quale si costituisce l’Unione, caldeggiava già la necessità di introdurre nell’ordinamento giuridico di ogni Paese della zona-euro la realtà di un reddito minimo garantito, realtà che è oggi in essere in ventotto Stati dell’Ue tranne che nel nostro ordinamento e in Grecia (reddito minimo garantito da non confondersi poi con il reddito minimo di cittadinanza più volte menzionato dal M5S perchè, mentre quest’ultimo è erogato a tutti i cittadini di un certo Paese a prescindere che lavorino o meno e dall’accertamento delle condizioni economiche e patrimoniali di una persona, il reddito minimo garantito si eroga invece solo dopo accertamenti sul reddito e sul patrimonio del richiedente).
Cosa dire riguardo a ciò di cui siamo sempre andati fieri ed orgogliosi, l’universalità dei Diritti per l’assistenza sanitaria e sociale? Secondo il rapporto Noi Italia 2014, pubblicato dall’Istat l’11 febbraio scorso, la verità non è affatto questa, ma a ben vedere si dice che la sanità italiana è infatti sotto la media UE per posti letto ospedalieri, insieme a Portogallo, Spagna, Regno Unito, Irlanda, Svezia. Inoltre la spesa sanitaria pubblica corrente in Italia nel 2012 è stata di circa 111 miliardi di euro, pari al 7% del Pil e a 1.867 euro annui per abitante, un valore questo di molto inferiore rispetto a quello che si è registrato in altri importanti Paesi d’Europa.
Dalla lettura del rapporto emerge inoltre che il nostro Paese è visto dall’UE anche come un Paese di discriminanti, e a ben vedere le discriminazioni il più delle volte sono molto più sottili di quanto non si creda. Il rapporto dell’UE spiega infatti che le discriminazioni nel Bel Paese sono sopratutto di due tipologie, per età e per minoranze etniche. Per vederle palesarsi, è sufficiente leggere il più semplice degli annunci di lavoro, e relativamente all’età, purtroppo non c’è nessuno che a tal riguardo possa dichiararsi ‘salvo’. Ebbene ogni qualvolta che si sfoglia un annuncio, avremo fatto caso che solitamente i recruiters cercano il loro candidato ideale quasi sempre in funzione della sua età anagrafica; sembrerà una cosa ovvia e normale, tuttavia è illegale, tanto per il nostro ordinamento giuridico, che vieta ogni discriminante nelle assunzioni al lavoro sia per sesso, età, religione, gruppo politico, sindacale o appartenenza etnica, quanto per la direttiva 2000/78 CE della Comunità, che già con l’inizio del nuovo millennio invitò infatti il nostro parlamento a inasprire le sanzioni per coloro che nella ricerca del personale praticano procedure di selezione discriminanti, ma, a posteriori, si può dire che le parole dei burocrati di Bruxelles purtroppo siano andate proprio al vento. Non a caso la cronaca racconta che solo un anno fa, nel marzo 2013, quando al governo sedeva ancora Mario Monti, quindici quarantenni insieme all’associazione Atdal over-40, hanno fatto ricorso alla Corte di Giustizia accusando l’Italia di aver provocato con la riforma Fornero ‘una gravissima situazione di discriminazione a danno di cittadini in età matura disoccupati e privi di qualsiasi sostegno al reddito‘ e di non aver represso le offerte di lavoro pubbliche e private con limiti di età.
Ma che l’Italia non sia più Terra di Diritti è ravvisabile ancor più nel concreto nel mondo del lavoro in sè; sotto la lente d’ingrandimento dell’UE la spaccatura sociale tra gli ‘ipergarantiti’e la forza lavoro cd ‘precaria‘, che in Italia infatti rappresenta un vero esercito, oltre 3,3 milioni.
Si tratta, come sappiamo, di due mondi completamente separati e non comunicanti, una vera spaccatura in seno alla società a cui si deve dare la giusta attenzione; rimane il fatto che secondo l‘OCSE l’Italia ancora una volta ha il più alto tasso in Europa di lavoratori impiegati con contratti atipici nell’amministrazione pubblica e ad oggi oltre il 53% degli under 25 lavora con formule d’impiego precarie, facendo di questa posizione sociale, ed esistenziale, la migliore per una vita ‘sotto ricatto'( chi lavora precariamente, sa bene perchè è ricattabile).
Non sarà un caso, quindi, che secondo l’UE nel Bel Paese non si faccia abbastanza neppure per combattere la povertà e l’esclusione sociale, realtà che, se non ben monitorata, non è difficile poi che sfugga completamente di mano. In Italia infatti, oltre ad non esistere alcuna forma di sostegno al reddito,le poche misure esistenti di assistenza non prevedono neppure iniziative di responsabilizzazione e attivazione dei cd.poveri, che quindi restano ancora tali e soli. A questo poi si aggiunga, come dimostrano diverse ricerche e studi, i tanti problemi di ordine psicologico che ad una tale condizione si accompagnano; non sarà quindi un caso che anche l’uso degli antidepressivi, le richieste di assistenza psicologica, siano letteralmente schizzati alle stelle negli ultimi tempi, sopratutto, come si è detto, tra le fasce più povere. L’Italia infatti ha sempre avuto nell’ultima decade una percentuale di persone a rischio povertà o esclusione sociale superiore al resto dell’Eurozona, conferma il rapporto; nel 2012, solo 15 mesi fa, in Italia viveva in questa condizione quasi il 30% della popolazione, mentre la media della zona euro era pari al 23,2%, ed oggi questa percentuale , come riporta la cronaca e la statistica, è ulteriormente salita. Allora è forse vero quello che dicevano i nonni che si stava meglio quando si stava peggio?