Governo Renzi, pochi ‘renziani’ per paradosso o strategia?
Il Governo Renzi è entrato ufficialmente in carica, dopo aver ottenuto la fiducia sia al Senato (169 i “sì”) che alla Camera (378 voti a favore). Tuttavia, ciò che salta all’occhio nella composizione dell’esecutivo – al di là dell’inevitabile eterogeneità propria di un governo di larghe intese – è la scarsa presenza di “renziani doc”.
Prendendo in considerazione gli otto ministri del PD, l’unico vicino all’ex sindaco di Firenze è Maria Elena Boschi. Gli altri provengono dalle aree più disparate del partito: dalla corrente bersaniana (Martina, ministro dell’Agricoltura) sino ai Giovani Turchi (il Guardasigilli Orlando), passando per la civatiana Lanzetta (Affari Regionali). Ad AreaDem appartiene invece Franceschini (Cultura), figura di riferimento per due ministri come Mogherini (Esteri) e Pinotti (Difesa). Senza dimenticare Marianna Madia (Pubblica Amministrazione e Semplificazione), che ha inaugurato la sua carriera politica al fianco di Veltroni passando attraverso collaborazioni con l’agenzia AREL (che fa capo ad Enrico Letta) e la fondazione Italianieuropei, legata all’ex premier Massimo D’Alema.
Anche la scelta di Graziano Delrio per la carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio può in realtà essere considerata un “arretramento”, rispetto al ruolo di ministro ricoperto nell’esecutivo precedente. Altri renziani doc, considerati in pole position alla vigilia della formazione dell’esecutivo Renzi – un nome su tutti: Ernesto Carbone, in lizza per il ministero dell’Agricoltura dopo la rinuncia da parte di Oscar Farinetti, fondatore di Eataly – sono rimasti fuori dai giochi. Altri ancora come Simona Bonafé, Matteo Richetti, Dario Nardella e Rosa Maria Di Giorgi, non sono stati nemmeno segnalati nei “rumors” della vigilia. La truppa renziana non dovrebbe essere particolarmente nutrita nemmeno per quanto riguarda i viceministri e sottosegretari – ruoli comunque di secondo piano, quantomeno a livello mediatico – almeno stando alle voci che circolano negli ultimi giorni.
In realtà, più che un paradosso, il “low profile” scelto da Renzi potrebbe essere una strategia precisa. Rendendo meno casuale l’assegnazione alla Boschi del Ministero delle Riforme, a cui è legato il vero caposaldo del programma di Renzi: la nuova legge elettorale e le riforme costituzionali del Senato e del Titolo V. Dicastero vitale a tal punto che è lecito supporre che “la testa di Quagliariello” potesse rappresentare l’unica contropartita accettabile in cambio della conferma nell’esecutivo degli altri tre ministri NCD. Mossa che, unita all’avvicendamento Mauro-Pinotti alla Difesa, conferma un altro paletto posto da tempo da Renzi: la necessità di cambiare i rapporti di forza interni alla maggioranza, come confermato dal nuovo esecutivo in cui il PD – pur confermando numericamente gli stessi ministri dell’esecutivo Letta (otto) – aumenta il suo peso specifico (passando dal 42% di dicasteri nel governo precedente al 50% in quello attuale).
“Non farsi logorare” è l’imperativo che guida costantemente Matteo Renzi. Lo è stato nella scelta di staccare la spina ad un governo il cui immobilismo rischiava di far dilapidare il credito accumulato con lo straordinario successo ottenuto alle Primarie. E lo sarà ancora con il nuovo esecutivo, in cui il leader del PD ha deciso di assumere un ruolo da protagonista. Ciò potrebbe fa presumere una road map ben precisa: portare a casa il prima possibile legge elettorale e riforme costituzionali – o quantomeno una delle due – per poi rilanciare la palla agli alleati.
In un tale scenario, nel peggiore dei casi Renzi potrebbe tornare alle urne rivendicando quel risultato minimo – raggiunto dall’unico ministro “geneticamente renziano” – quale successo personale, scaricando sugli alleati le responsabilità della fine anticipata della Legislatura. Nel migliore dei casi, si andrebbe avanti sino al 2018, mantenendo comunque le promesse di un “esecutivo di legislatura”. Una strategia inappuntabile – a patto di non cadere anzitempo nella stessa palude di lettiana memoria – che giustificherebbe l’inaspettata giravolta di un leader che, sino ad un mese fa, non aveva alcuna intenzione di affossare Letta ne’ di arrivare da Palazzo Chigi senza una piena investitura elettorale.
Emanuele Vena