Cosa si nasconde dentro un musicista che, con esiti piuttosto tragicomici, tenta caparbiamente di trovare la propria strada? Quali emozioni, quali pensieri lo accompagnano, mentre cerca di ricucire lo strappo provocato nella sua vita da alcuni dolorosi avvenimenti?
A proposito di Davis di Joel ed Ethan Coen, interpretato da Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips e Robin Bartlett, costituisce l’affresco palpitante di questo altalenante mondo interiore.
Greenwich Village, 1961. Llewyn Davis (Oscar Isaac), musicista folk tanto talentuoso quanto rude e malinconico, è rimasto solo dopo che l’altra metà del suo duo, Timlin, si è suicidato. Inside Llewyn Davis è il titolo del disco che ha realizzato per promuoversi (nonché il titolo originale del film), ma che non gli è valso gli introiti sperati. L’avvento di Bob Dylan è infatti ancora lontano, e con esso il boom della musica folk, così i ragazzi che si “ostinano” a suonarla arrivano dai sobborghi più poveri di New York, in cerca di un’esistenza diversa da quella toccata in sorte ai loro padri.
Davis si esibisce solitamente al Gaslight Cafè, dove viene pagato con una parte delle mance dei clienti, e al termine delle sue performance è costretto a chiedere ospitalità ora a un amico ora a un altro, avendo ogni volta per letto un divano. L’uomo vive insomma di espedienti: niente soldi, niente casa, niente vestiti, finché nella sua esistenza irrompe un gatto senza nome, il cui passo intersecherà zigzagando i suoi giorni stralunati.
Proprio come il felino, Davis percorre ostinato quella che ritiene essere la sua personale strada verso il successo, rifiutando di accettare compromessi come invece ha fatto l’amico Jim (Justin Timberlake). La vita privata, peraltro, non sembra andar meglio, come dimostra lo sbilenco rapporto che ha (avuto) con la moglie di Jim, Jane (Carey Mulligan), non privo di conseguenze per entrambi. La conflittualità scandisce la sua esistenza, colonizzando ogni suo gesto, ogni sua scelta, ogni sua relazione, tanto con il mondo esterno quanto con quello interno. Auto-sabotarsi sembra essere la sua specialità, così la settimana si conclude in modo perfettamente circolare, saldando insieme l’inizio e la fine (?) dei suoi sette giorni di guai, intrisi di uno sguardo amaro e dolente ma intenso e vibrante come sa essere un ritratto al carboncino.
A proposito di Davis, vincitore del Grand Premio della Giuria a Cannes 2013, è parzialmente ispirato al memoir del folk singer Dave Van Ronk (The Mayor of MacDougal Street), e rappresenta una sorta di piccola summa del cinema precedente dei fratelli Coen, caratterizzato da incontri enigmatici, facce bislacche, bizzarre riunioni canore attorno ad un microfono e tragicomici doppi.
L’intento dei Coen di omaggiare Bob Dylan è evidente fin dal manifesto del film, che costituisce una sorta di citazione della copertina di Freewheelin’ (1963), secondo album di Bob Dylan e primo contenente solo sue composizioni. In entrambi campeggia un giovane uomo scapigliato che si stringe nella sua giacca sportiva a causa del freddo tagliente; tuttavia, mentre Bob avanza abbracciato a una ragazza, Oscar Isaac ha una custodia di chitarra in una mano e nell’altra un gatto. La scelta di ambientare la storia nel 1961 non è quindi casuale: è infatti proprio questo l’anno in cui, per la prima volta, Bob Dylan si esibisce in pubblico; da lì a qualche tempo si produrrà una marcata frattura tra il cantante, diventato una popstar, e il movimento politico-artistico folk tradizionale.
Lo stile scelto dai Coen per raccontare la storia è senza dubbio spiccatamente filologico; dal punto di vista musicale sono state molteplici le esecuzioni integrali, eseguite dal vivo, che hanno impegnato i principali interpreti. La canzone più celebre presente nel film è 500 miles, portata al successo dal trio Peter Paul and Mary.
L’essenza del film è probabilmente racchiusa nella scena in cui Davis, su un palco in penombra, “vestito” solo della sua chitarra (e a un certo punto nemmeno più da essa), intona una toccante ballata. La potenza emotiva di questo momento è “spezzata” dalla reazione dell’impresario presente che lo gela dicendo «non si fanno soldi con quella roba». In questa rasoiata al vetriolo è racchiuso il punto di vista dei Coen sull’ arte e sull’industria.
Hang me, oh hang me, canta Davis. Ho girato tutto il mondo. Sono salito su una montagna e lì ho fatto resistenza. Ma ora mi impiccheranno. Il musicista simboleggia qui il popolo ebraico, destinato a peregrinare, privato delle sue radici. Così come gli ebrei furono costretti a vagare nel deserto, lui è un vagabondo al Greenwich Village, confinato in una ciclicità perpetua, un po’ come l’umanità tout court, secondo la pessimistica concezione dei fratelli Coen.
Fortemente simbolico è inoltre il ruolo del gatto nella storia; l’animale incarna infatti libertà e indipendenza, il “tesoro” a cui Davis non può rinunciare. Così, quando la strada del musicista si dividerà da quella del felino, il momento sancirà una specie di distacco dallo spirito guida, da colui che «mostra la Via», secondo la cultura animista dei monaci Zen.
Nel film, gli anni ’60 hanno i colori spenti del grigio e dell’ocra; la fotografia di Bruno Delbonnel è superba, caratterizzandosi per il taglio delle inquadrature e gli accostamenti cromatici (grigi caldi con toni aranciati o azzurri polverosi). Il tutto contribuisce a creare, a dispetto di una città ostile, chiusa e gelida nel senso letterale del termine, un’atmosfera di intimità con il protagonista. A tal proposito, merita di essere citato Oscar Isaac, attore teatrale al suo primo ruolo importante al cinema, assolutamente convincente ed espressivo nel calarsi nella storia, alla cui credibilità ha contribuito anche in considerazione del fatto che è, tra le altre cose, anche un ottimo cantante.
A proposito di Davis è quindi un film assolutamente vedere; in proposito hanno scritto: «è in conclusione una celebrazione della musica, una celebrazione del cinema. Una ballata folk circolare che si morde la coda. Poetico, struggente, distruttivo, profondamente malinconico. I fratelli Coen sono finalmente tornati».
Francesca Garrisi