Di lo Scorfano (riflessione interessante su cui non concordo in pieno):
Io lavoro lontano da casa dei miei genitori. Mi sono spostato a diciannove anni (da loro incoraggiato e finanziato, peraltro) e non sono più tornato. Ho cambiato, in venticinque anni, una dozzina di case e almeno otto comuni di residenza: mia madre e mio padre non hanno mai visto molti di questi luoghi, anzi, a pensarci bene, ne hanno visti soltanto due. Ora abito sul lago, dove ho comprato una casa, ma per molto tempo sono stato in affitto a Milano, a Brescia, a Piacenza e in altri piccoli paesi del Nord dell’Italia, dove il lavoro mi portava. E, devo dirlo, mi è anche piaciuto questo moderno e confortevole nomadismo.
Adesso però c’è qualcosa che mi pesa, quando ci penso. C’è che i miei genitori sono invecchiati e non sempre stanno bene. Mio padre è già stato operato, è cardiopatico, ha più di settant’anni; mia madre invecchia rapidamente. E ogni tanto li penso, loro due lì da soli, nella casa in cui mi hanno cresciuto pensando solo al mio futuro, e il cuore si stringe a me, e mi pare brutto non poter fare qualcosa per loro, dopo tutto quello che loro hanno fatto per me. Certo, non sono abbandonati: c’è mia sorella, che invece è rimasta a casa e li ha felicemente resi nonni, che si può occupare di loro. Ma se non ci fosse lei, sarebbero guai: perché, purtroppo è così, le badanti costano care e i servizi sociali del comune non sono esattamente un modello di efficienza.
Poi, tornando a me, è vero che ho un posto fisso, ma è anche vero che il mio posto fisso ha meno di dieci anni e che è stato sempre accompagnato da un bel po’ di posti mobili. Io ho insegnato nelle scuole private, prima di vincere il concorso nella scuola pubblica; ho lavorato per due università e per almeno una decina di case editrici, ho tenuto centinaia di conferenze e una manciata di corsi di aggiornamento. E poi, sorpresa e godimento degli economisti di ogni ordine e grado, una volta ho anche aperto una piccola impresa, diciamo così.
In realtà era un’associazione culturale, fondata da me e altri due amici: con pochi soldi investiti per affittare qualche locale, abbiamo messo su dei corsi serali sulle discipline che conoscevamo, abbiamo assunto (a contratto) delle altre persone che tenessero altri corsi e abbiamo raccolto iscrizioni a pagamento. Alla fine abbiamo chiuso, dopo quattro anni: non ci abbiamo perso ma nemmeno guadagnato molto, giusto qualche migliaia di euro a testa. Che in quattro anni non è proprio una ricchezza. Ma insomma, quello che intendevo significare è che il mio posto fisso non è stato così fisso e monotono come potrebbe apparire. È stato anche altro, e si è accompagnato con altro; e non so se questo debba rendermi soddisfatto di non essermi annoiato, non lo so davvero.
Perché, ed è questo il punto, non è mica la noia, il punto. Non è la monotonia e non è il lontano da casa, non sono mica queste vane stupidaggini. Il punto, ovviamente, è sentirsi, per quello che si riesce, un po’ felici. E né il lontano da casa né l’allegria infinita del cambiare lavoro una volta all’anno, mi pare, hanno molto a che fare con questo: con il sentirsi, per quanto possibile, quel po’ felici. Ed è questo quindi il punto che mi lascia perplesso, che mi fa pensare, che mi induce al dubbio, che mi fa storcere la bocca davanti ai giornali squadernati sul mio tavolo o alla televisione accesa in salotto.
Perché pare a me, e può darsi benissimo che mi sbagli, a me pare chiaramente che il Presidente del Consiglio e poi il ministro degli Interni e poi il ministro del Lavoro parlino di tutto tranne che di questo. E che non sia soltanto questione di economia e di tecnocrazia, ma che loro lo pensino davvero: che uno per non annoiarsi debba cambiare davvero lavoro e che per essere un uomo (o una donna) nel senso pieno del termine, debba allontanarsi dalla casa materna. E che chi non lo fa, chi non cambia lavoro e non si allontana dalla mamma, sia, per usare un altro felicissimo termine governativo e tecnocratico, uno sfigato.
Cioè, che non sia una necessità (perché, badate bene, lo so anch’io che, purtroppo, per i venticinquenni, è una necessità; purtroppo), ma che sia una gioia, tutto questo, che sia proprio la ricetta per vivere bene ed essere soddisfatti di sé, e che le altre ricette siano superate, appartengano al passato, che sia «bello» che sia così. E che la felicità sia appunto, secondo loro, questa che io chiamo necessità: lavorare, sbattersi, muoversi, realizzarsi, trovare lavoro, cambiare lavoro, guadagnare qualche soldo in più, andare all’estero, sbattersi, lavorare, stare lontano di genitori, stare lontano dalla fidanzata o dalla moglie (se cambi lavoro, è raro che tu lo possa trovare sempre nello stesso posto) e però fregarsene, dei genitori e della fidanzata, perché la felicità è sbattersi, lavorare, cambiare lavoro, stare lontani da casa, lavorare. Io, insomma, ho il sospetto che lo pensino davvero; e che siano così poveri (mi scuso per l’aggettivo) da pensarlo davvero. E che le gaffes non siano gaffes, ma lapsus rivelatori di un mondo, di un’intimità tutta loro. E questo mi dispiace.
Perché, vi dico la verità, oltre a provare un po’ di sofferenza per i miei genitori vecchi e lontani da me, oggi, se arrivasse qualcuno e mi offrisse finalmente il lavoro dei miei sogni a mille chilometri da qui, io gli direi di no.
Perché qui ho i miei amici, perché qui c’è la mia ragazza che non può spostarsi (lavora anche lei, non è mica un bagaglio), perché questa è la mia vita (la nostra vita). Anzi, è la mia felicità. Fatta in parte (piccola) del mio lavoro, e soprattutto fatta dei miei affetti. E io, un po’ noioso come sono, devo anche confessare di essere un uomo felice: ora che l’associazione culturale è chiusa, ora che l’editoria è un mondo da cui sono sempre più lontano, ora che di conferenze ne faccio sempre meno, ora che corsi di aggiornamento non ne tengo più. Proprio ora sono molto felice, e mi sento bene. E forse non è nemmeno un caso che io sia così felice: se nel frattempo ho smesso di sbattermi lavorare sbattermi cambiare casa sbattermi eccetera.
E dunque a me non piacciono certe dichiarazioni, siano esse gaffes o lapsus. Non mi piace la miseria (mi scuso per il sostantivo) che ho il sospetto che stia dietro a quelle dichiarazioni, non mi piace l’intimità piccola e asfittica che esse rivelano, mi dispiace per loro, lo trovo triste, li trovo tristi. Li trovo miseri e stupidi. E senz’altro, come qualche mese fa, io penso ancora che abbiamo bisogno di loro, per risollevare un po’ i conti pubblici di questo paese. Ma, anche se so che ne abbiamo bisogno, vi dico l’ultima verità, mi stanno pesantemente antipatici, non li ascolto, non li voglio più vedere e sempre più spesso mi scopro a pensare: «Che facciano il loro lavoro, da tecnici competenti come dicono di essere, e che poi si levino dai piedi, che non li voglio vedere più, fuori da casa mia».
Ecco, l’ho detto. I tecnici mi sembrano davvero poca cosa, l’ho detto. Molto probabilmente ne abbiamo bisogno, ma mi sembrano brutti tristi e infelici. E dicono cose che mi fanno quasi ribrezzo: perché tutto sembra lavoro e tutto il resto sembra inutile, mentre tutto il resto sono le persone, i luoghi, gli affetti, l’amore. E allora mi sento uno che ha bisogno di queste persone «tecniche» che gli fanno ribrezzo e non è affatto una bella sensazione: e non so quanto tempo potrò metterci a perdonare noi (la politica, cioè noi) che siamo arrivati al punto di avere bisogno di gente che sembra così brutta, così triste.
(E non mi dite che «almeno sono meglio di quelli che c’erano prima»: questo non è un argomento, questa è solo una conferma del fatto che è colpa nostra.)
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