Il ritorno dei Giovani Turchi
Un tempo esistevano i Giovani Turchi. No, non quelli di Mustafa Kemal Attaturk che fecero della neonata Repubblica Turca qualcosa di “completamente diverso dal vecchio impero ottomano, sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista spirituale”. Ma quelli interni al Pd. Giovani dirigenti che nel settembre 2010 tentarono invano di convocare un convegno capace di ridisegnare l’identità del principale partito del centrosinistra italiano. Il tutto all’insegna di un nuovo laburismo e di una vocazione di sinistra capace di non vergognarsi di essere tale.
[ad]Il tutto naufragò in quanto, gli stessi Turchi, non vollero eccessivamente alimentare un polverone mediatico che molte anime avevano contribuito a far alzare al Nazareno.
Passano gli anni, e la troika Fassina-Orfini-Orlando (rispettivamente il responsabile economia, quello della cultura e quello della giustizia) ritornano sui loro passi, intenzionati a convocare un nuovo convegno, questa volta a porta chiuse, con la “mission” di ridisegnare, anche questa volta, l’identità del Pd.
Gli esempi? Sostanzialmente la socialdemocrazia. Senza però disegnare il nuovo corso milibandiano del Labour britannico.
Occorre infatti, secondo le intenzioni dei promotori, rispolverare la vocazione maggioritaria. Ma senza discostarsi dal sistema politico europeo che faticosamente si sta cercando di costruire. E dunque i socialisti da una parte e i popolari (Udc compresa, ma dove li mettiamo i Sudtirolesi dal ’96 perno del centrosinistra?) dall’altra.
Un’alleanza organica di sinistra tra Pd e Sel che escluda dai giochi l’Idv e, per forza di cose, accantoni la prospettiva di un’alleanza con Casini. Ipotesi quanto mai ventilata nel corso dell’ultimo congresso nazionale del Pd nel 2009.
Una proposta che come era prevedibile scalda i cuori, rendendo il tutto una diatriba tra gli i supporter dei Giovani Turchi e i loro detrattori.
Ma se questa volta il documento “ottomano” avesse almeno il pregio di delineare, involontariamente, le principali criticità in casa democratica?
Due cose stupiscono del documento della troika. E stupiscono perché sembrano andare fortemente se non contro “oltre” l’attuale segreteria Bersani.
In primo luogo c’è il discorso sul ruolo della socialdemocrazia. Un discorso annoso che ha riguardato gran parte della vicenda politica della sinistra italiana e che sarebbe fuorviante in questa sede ripercorrere e analizzare.
Il succo della questione sta nel fatto che Bersani da tempo, come gran parte della classe dirigente democratica, sostiene che il paradigma socialdemocratico ormai non basta più. Del resto era anche questa, e non solo la considerazione nei confronti del “particulare” italiano, una delle molle che portò all’ideazione di un soggetto politico nuovo come il Pd. Capace di rappresentare il campo del riformismo e del centrosinistra italiano prendendo da tutte le culture politiche del riformismo italiano, per andare oltre il mero socialismo e lanciare la sfida alle tanto popolari destre europee di questo periodo. Un ritorno tout court alla socialdemocrazia sembra quasi voler creare uno spartiacque radicale tra chi considera il Pd come il polo dei socialisti europei in Italia e chi invece vuole prendere alla lettera l’assenza dell’aggettivo “socialdemocratico” nel nome della propria formazione politica.
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