Dal Sud Sudan notizie sempre più preoccupanti. Pare che ad Addis Abeba, pur senza interrompere formalmente le trattative di pace, le due delegazioni e i mediatori africani, abbiano deciso di sospendere per due settimane i colloqui per il raggiungimento di un nuovo e più efficace cessate il fuoco, o di una tregua.
Almeno per ora, dunque, non c’è da sperare in una attenuazione del conflitto che, del resto continua a crescere in intensità e in estensione sul territorio.
Una notizia appare molto preoccupante per il rischio che la guerra scivoli sempre più verso un conflitto espressamente etnico.
C’è una denuncia diffusa in questi giorni da un gruppo di deputati originari dello stato dell’Upper Nile e della sua capitale Malakal che chiede al presidente Salva Kiir di distribuire armi da fuoco ai giovani delle comunità più colpite dal conflitto nella regione di Upper Nile e nell’area più vicina al capoluogo Malakal ma anche nelle contee di Panyikang, Fashoda, Manyo e Baliet.
L’esaudimento di questa richiesta segnerebbe il passaggio da una guerra civile ad un conflitto espressamente etnico, nel quale entrambe le parti si affidano al consenso e all’arruolamento sulla base di appartenenza a tribù.
La richiesta dei parlamentari arriva dopo che a Malakal sono stati scoperti dalle truppe governative che l’hanno riconquistata una serie di massacri e fosse comuni, non solo di militari governativi, ma anche di civili.
L’Upper Nile è abitato in buona parte da appartenenti all’etnia degli shilluk che, in questo modo, viene tirata dentro in un conflitto che fino ad ora ha coinvolto soprattutto le due principali etnie del paese, cioè i Dinka del presidente Salva Kiir, e i Nuer del suo rivale Riek Machar.
Il fatto che la guerra civile precipiti sempre più in un conflitto etnico è il risultato diretto del fallimento di una trattativa che riporti alle questioni politiche il contrasto che ha originato la guerra.
E finora non si può non constatare l’inconsistenza dei mediatori internazionali che, si dice, abbiano addirittura fatto fatica a far sedere allo stesso tavolo delle trattative le due delegazioni.
Eppure che il conflitto venga riportato al tavolo dei negoziati è essenziale. Se i paesi aderenti all’IGAD, organismo regionale che ha in mano la mediazione, non sono in grado di ottenere successi che vengano coinvolti paesi più autorevoli della comunità internazionale. Ma si faccia in fretta.
Raffaele Masto