Genova, il PD e la sindrome delle primarie

genova

Le primarie del centrosinistra tenutesi il 12 febbraio a Genova hanno scatenato un vero e proprio terremoto politico interno al Partito Democratico, culminato con le dimissioni del segretario provinciale e di quello regionale dopo la sconfitta che le due candidate del PD hanno rimediato contro l’outsider Marco Doria, sostenuto da SEL.

[ad]Il copione ricalca in qualche modo quello di Milano, con il candidato espresso dal PD surclassato, i titoloni sui giornali, le dimissioni di massa di diversi esponenti della dirigenza locale, le affannose dichiarazioni dei leader nazionali pronti a fornire qualsiasi interpretazione del fenomeno purché in accordo con la propria strategia politica.
Eppure tanto i giornali quanto i democratici stessi paiono non aver fatto tesoro dell’esperienza di Milano, si ripropongono tematiche e dichiarazioni che davvero mostrano una profonda incomprensione sull’uso delle primarie, o quantomeno uno scollamento tra l’appuntamento così come inteso dal partito e come invece lo immaginano – e lo impongono con il voto – gli elettori.

Le primarie di Genova sono state una sconfitta? E se sì, per chi?
C’è un dato decisamente sottovalutato che pesa come un macigno su questo appuntamento, che dovrebbe far riflettere tutti i partiti della coalizione e che sicuramente non è di buon auspicio in una delle città-simbolo della sinistra in Italia: la partecipazione.
I 25.000 elettori delle primarie 2012 sono oggettivamente pochi, 10.000 in meno rispetto al precedente appuntamento e in relazione alla popolazione una percentuale inferiore rispetto a quella che consacrò Pisapia a Milano. Considerato la tradizione di sinistra di una città come Genova, il risultato è altamente insoddisfacente e questo, ben più del nome del vincitore, dovrebbe essere il vero cruccio non solo di Bersani, ma anche di Vendola, Di Pietro e tutti gli altri leader che si ritrovano nella coalizione di centrosinistra in città.

A questo motivo di partecipazione, reale e di valenza generale, si è tentato di sovrapporne un secondo, limitato al Partito Democratico, che riguarda la cronica incapacità da parte dell’establishment del partito di individuare candidati capaci di imporsi nelle grandi realtà cittadine.
Se si guardano le prime dieci città italiane per popolazione, e tra queste si prendono le sette governate dal centrosinistra, appare il segeuente scenario: a Milano è sindaco Pisapia, che alle primarie ha sconfitto l’esponente PD Boeri; a Napoli il sindaco è De Magistris, che al primo turno si è guadagnato il ballottaggio a scapito del PD Morcone, a Firenze governa Renzi, che pur democratico ha vinto le primarie contro il suo stesso partito. Solo a Torino, Bologna e Bari il principale partito di centrosinistra è riuscito a proporre e far vincere un canditato espresso dal proprio establishment. Fino a ieri in questa ultima lista rientrava anche Genova, ma con la vittoria del SEL Doria il capoluogo ligure ha lanciato un ennesimo messaggio di protesta contro i vertici democratici.
Se nel 2011 il grande numero di città importanti al voto aveva in qualche modo relegato ai margini lo svolgimento delle primarie in realtà minori, l’elevato numero di comuni capoluogo al voto in questo 2012 consente di inquadrare meglio il rapporto tra il Partito Democratico e lo strumento delle elezioni primarie. Asti, Parma, Lecce, Piacenza, Lucca, Monza… in pressoché tutti i comuni in cui si sono tenute le primarie i candidati del PD hanno prevalso nettamente.

(per continuare la lettura cliccare su “2”)

[ad]Come inquadrare allora il caso di Genova?
Sicuramente sarebbe scorretto ricondurre il tutto alle specificità del capoluogo ligure. Genova è la naturale prosecuzione dei fenomeni di Milano, Napoli e Cagliari, che evidenzia una crescente difficoltà da parte del Partito Democratico nell’individuazione dei candidati adatti per i grossi centri, se non in realtà in cui l’amministrazione del partito aveva già raggiunto livelli di consenso bulgari come a Torino o dove il PD riesce a costituire di per sé un sistema di potere come a Bologna. Laddove la carica di sindaco concerne un grosso centro, in effetti, il suo peso ne risulta nettamente accresciuto, trasformando l’incarico amministrativo in incarico politico. Le frequenti dichiarazioni alla stampa di personaggi come Emiliano (sindaco di Bari) o De Magistris (sindaco di Napoli) su temi di politica nazionale ne sono la prova, allo stesso modo delle frequenti comparsate televisive di Pisapia (sindaco di Milano); l’esempio in assoluto più eclatante è tuttavia Renzi (sindaco di Firenze) che ha usato la sua elezione a primo cittadino per ritagliarsi un ruolo di primissimo piano nel partito e in generale sulla scena politica del Paese.
Nella scelta del primo cittadino per città così importanti, dunque, non è inconsueto che elementi come l’appartenenza territoriale, passate esperienze di buon governo, la vicinanza alla popolazione, passino in secondo piano rispetto a criteri di scelta meno nobili quali il parcheggio per un esponente di spicco non eletto ad altra carica, il premio per il dirigente fedele, o altro.
Inoltre, le grandi città sono per definizione mondi in maggiore fermento rispetto ai piccoli centri, luoghi di sperimentazione anche politica e sicuramente i primi luoghi in cui le novità tendono ad affermarsi e consolidarsi.
Il problema del Partito Democratico, quindi, risiede nella capacità di scelta dei candidati, spesso ritenuta da un elettorato comunque piuttosto attento e critico troppo legata da vincoli e strategie di partito – a torto o a ragione – e non nel reale interesse del territorio. A volte con qualche sorpresa: Fassino, la cui candidatura da molti era considerata come una sorta di pensionamento anticipato per lo storico esponente democratico, ha stravinto le primarie a Torino, e non solo per l’appoggio del suo popolarissimo predecessore Chiamparino. Altrove, candidati comunque di rottura come Boeri sono stati scavalcati da candidature ancora più simboliche, vuoi per le proprie qualità vuoi perché in grado di raccogliere gli appoggi più popolari del momento.

Risultati delle primarie 2012 a Genova
(aggregazione per seggio)

All’interno di questa cornice generale è tuttavia d’obbligo evidenziare le peculiarità delle elezioni genovesi.
In primo luogo, il PD ha espresso due candidati, il sindaco uscente – a cui va comunque il plauso di essersi rimessa in gioco dopo un mandato e avere forse creato un precedente per il futuro – Marta Vincenzi e la senatrice cattolica Roberta Pinotti.
Due candidature dalla forza equivalente, che hanno però avuto l’effetto di annullarsi a vicenda, spianando la strada a Marco Doria, professore universitario targato SEL.

(per continuare la lettura cliccare su “3”)

[ad]Marta Vincenzi ha ottenuto un pessimo risultato. Malgrado le sue adirate esternazioni su Twitter, è chiaro che il sindaco godeva di scarsa popolarità nel proprio elettorato, vuoi per scelte poco felici vuoi per una errata presentazione alla cittadinanza delle stesse. Temi come la moschea, la gronda, Fincantieri hanno progressivamente appannato l’immagine della Vincenzi, fino alla tremenda alluvione dell’autunno 2011 che ne ha definitivamente minato l’autorevolezza, per quanto fosse oggettivamente impossibile imputare una qualche colpa specifica all’amministrazione comunale in carica. Il 27% dei consensi è comunque un risultato decisamente poco lusinghiero, così come la vittoria in appena quindici dei settantatre seggi (più due in cui si è verificato un pareggio con Doria) in cui si votava. In particolare, la Vincenzi vince o pareggia nei seggi più piccoli, mentre soffre pesantemente nelle zone maggiormente abitate del centro e delle ex aree industriali. Tra le zone cittadine di spessore, infatti, il sindaco viene premiato solo a Rivarolo.

Roberta Pinotti, se possibile, ha fatto ancora peggio, trionfando solo nella sua Sampierdarena. La senatrice cattolica, che in teoria avrebbe dovuto raccogliere attorno a sé i delusi dell’operato della Vincenzi e aprire la strada all’alleanza con il Terzo Polo, ha fallito miseramente nell’impresa, dimostrando il vero errore del PD in questo frangente. Se per la Vincenzi le motivazioni del non voto possono essere ricondotte all’alveo di un dissenso personale, la Pinotti è stata considerata dalla cittadinanza come il simbolo di una svolta centrista che l’elettorato di centrosinistra non gradisce e che ha quindi punito severamente. Né il Terzo Polo ha tentato di influenzare le primarie – sempre a partecipazione libera – con un sostegno nell’urna per la senatrice democratica, evidenziando come anche l’elettorato centrista non sia particolarmente interessato ad un’alleanza verso sinistra.

L’incrocio di questi fattori ha spianato la strada a Marco Doria, il terzo incomodo su cui si sono riversati i voti e le speranze del centrosinistra cittadino. Al di là le battute che accomunando Doria a Monti – anche Doria è docente universitario – mettono in evidenza la passione del PD per i professori al governo, non è trascurabile una componente di esasperazione da parte di una base che desidera un ritorno a sinistra dopo la continua rincorsa al centro che caratterizza i sistemi maggioritari bipolari.

Risultati delle primarie 2012 a Genova
(aggregazione per quartiere)

 

Mappa dei risultati delle primarie 2012 a Genova

Osservando la distribuzione del consenso, si vede come Doria sia riuscito a imporsi in otto quartieri su nove, tuttavia la distribuzione del voto evidenzia molto bene tanto la struttura dell’elettore tipo dei vari candidati, quanto l’immagine che al giorno d’oggi la sinistra proietta di sé.
Doria ottiene infatti i suoi migliori risultati nel centro cittadino, di fatto arrivando a pareggiare nelle periferie che corrispondono alle ex aree industriali.
Così come Pisapia – che infatti in campagna elettorale dedicò grande attenzione proprio alle periferie meneghine – Doria è espressione di una sinistra intellettuale più che operaia e sicuramente meno inquadrata negli schemi di partito ereditati dalla struttura del vecchio PCI; proprio per questa ragione sfonda nelle classi borghesi che popolano il centro cittadino e invece stenta di più nelle periferie ex operaie… che tuttavia difficilmente faranno mancare il proprio appoggio al momento del voto reale.

(per continuare la lettura cliccare su “4”)

[ad]Analizzate le cause generali e particolari che hanno determinato l’esito delle primarie a Genova, resta la domanda di fondo: il PD ha perso le primarie? Il fatto costituisce un problema?
La risposta a questa domanda è complessa e certamente non scontata, ma soprattutto dipende da quali sono i reali obiettivi che il partito si pone. Se ci si limita all’espressione del sindaco, è chiaro che l’incapacità del Partito Democratico nel trovare candidati vincenti è un grave problema, e non è sbagliato affermare che così facendo il PD si trasforma in un mero corriere in grado di portare alla ribalta esponenti di altri partiti di centrosinistra, soffocando la spinta interna.
È tuttavia sbagliato ritenere le primarie uno strumento tramite cui SEL e IdV lanciano continue e progressive OPA sul PD, ancora più sbagliato se si guarda ai risultati delle amministrative del 2011 ed in particolar modo a Milano. Nel capoluogo lombardo il Partito Democratico ottenne un risultato che si può definire a dir poco strabiliante, e costituisce l’asse portante della forza di governo di Pisapia.
Seppure gli elettori PD hanno dato fiducia ad un candidato non espresso dalla dirigenza, non hanno per questo abbandonato il partito; anzi, sarebbe più corretto interpretare il risultato di Milano come un premio, un segno di affetto e fiducia verso una formazione in grado di accettare un candidato potenzialmente sgradito ma scelto dalla base e di sostenerlo adeguatamente durante la campagna elettorale.

Le critiche interne al PD e alcuni editoriali che oggi vedono in Genova una sorta di Caporetto democratica si limitano probabilmente alla pura questione numerica dell’espressione del sindaco; si dimenticano tuttavia che il programma realizzato da tale sindaco sarà comunque un programma compatibile con quello del PD; soprattutto, dimenticano che il consenso e il gradimento si misurano in numero di voti, non in numero di sindaci, e fino ad ora dove il PD ha accettato il verdetto delle primarie – per quanto sgradito – è stato poi premiato alle urne.
Quanto al problema di selezione dei candidati, il paradosso è che il PD vive come un problema ciò che ne è in realtà la soluzione: accettando il meccanismo delle primarie, il PD di fatto delega al proprio elettorato la scelta dei candidati, lasciando al partito il semplice compito di fare delle proposte e di accettare esponenti di altre formazioni o della società civile valutandone le affinità programmatiche.
Prendere atto che una persona di un altro partito – o non iscritta a partiti – viene considerata migliore di un nome espresso dal partito non deve essere considerato espressione di debolezza, di incapacità o peggio ancora di perdita di influenza e consenso. Al contrario, è al momento la migliore espressione in Italia di trasparenza, democrazia e coinvolgimento dell’elettorato.

Tanto rumore per – quasi – nulla.