Di lo Scorfano:
Forse, per chi come me aveva allora poco più di vent’anni, è inevitabile ripensare in questi giorni a quello che rappresentò, in quella nostra strana porzione di giovinezza, la stagione di «Mani pulite». È inevitabile perché la nostra educazione sentimentale, civile e politica si stava appena compiendo e strutturando, quando quella tempesta ci travolse e ci lasciò quasi tramortiti, nella difficoltà di comprendere e interpretare i fatti, le accuse, le possibili soddisfazioni e le preoccupazioni che forse avremmo dovuto avere. Fu «Mani pulite» invece, di botto. Furono i giudici sulle copertine dei settimanali e, credo io, fu quello che cambiò per sempre il nostro modo di vedere la politica.
Innanzitutto perché dopo «Mani pulite» fu Berlusconi, e questo, credo, è il caso di non dimenticarselo mai: che anche il berlusconismo è, almeno in parte, figlio (o figliastro) di quella stagione. Che per alcuni (che non fummo mai noi personalmente, ma questo poco importa) la novità attesa e invocata si incarnò proprio nel nostrano magnate dei media, nel padrone di quelle televisioni che già nel decennio precedente avevano inesorabilmente mutato l’immaginario comune e collettivo degli italiani. Mutazione che, forse, preparò in parte il terreno a quella disgregante stagione giuridica.
Ma non solo per questo, però. Perché, mi pare, ci fu un errore che quelli come me (e con ciò intendo dire i più ingenui tra coloro che a quel tempo, 1992, avevano poco più di vent’anni) commisero di fronte all’ondata tempestosa e trascinante di «Mani pulite». E l’errore più clamoroso fu quello di pensare che la corruzione fosse un problema esclusivo della classe politica e che dunque da lì andasse prima di tutto estirpata e debellata. Era un’equazione che ci venne comoda e facile (e che venne comoda e facile anche ad altri, ben meno ingenui di noi, altri che scrivevano sui giornali): la classe politica rappresentava il peggio dell’Italia, era il peggio dell’Italia. Mentre la «società civile» era meglio della classe politica e non era per niente corrotta.
Forse, a rifletterci con calma, i vent’anni che sono seguiti ci hanno insegnato proprio questo: che non era vero. Che non era solo un problema di classe politica, che le mani sporche non erano soltanto quelle dei politici e degli imprenditori più in vista. Forse avremmo già allora potuto mettere in dubbio, con forza, alcuni dei tipici costumi nazionali e non sentirci del tutto innocenti. E magari anche capire che, almeno in parte, la corruzione era un fenomeno che permeava la società, anche quella cosiddetta civile, che era almeno in parte la cifra caratteristica di un mondo che stavamo costruendo. E che accusare qualche politico e qualche amministratore (e poi anche liberarcene, come in parte è anche avvenuto) non sarebbe bastato.
I dati sulla corruzione, resi noti in questi giorni, ne sono la conferma: fummo miopi e fummo ingenui. La classe politica non poteva essere assolta, questo è ovvio; e meno male che «Mani pulite» ci fu, anche questo a me pare ovvio. Ma forse noi non avremmo dovuto mai fermarci agli avvisi di garanzia e alla spettacolarizzazione di certi processi, sentendoci puri e innocenti. Forse c’erano anche altri conti da fare, ben più impegnativi, e preferimmo non farli.
A volte sentirsi sudditi è comodo: le colpe sono di chi governa, magari «a nostra insaputa». Ma in realtà sudditi non lo siamo stati mai; e le nostre mani, per quanto giovani, non erano immuni dalla futura possibile sporcizia. A distanza di vent’anni possiamo cominciare, forse, a dircelo.
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