INTERVISTA Marchi: “Figuraccia grave del Pd sulla parità di genere, c’erano accordi con Fi?”

Pubblicato il 13 Marzo 2014 alle 09:55 Autore: Gabriele Maestri
Maino Marchi parità di genere

Il suo dissenso per come è andato il voto sugli emendamenti alla legge elettorale sulla parità di genere non l’ha nascosto: il deputato Maino Marchi ha lasciato la guida del gruppo Pd in commissione Bilancio della Camera. Alla fine ha votato per l’approvazione del testo uscito da Montecitorio, ma la rabbia è ancora tutta lì. Lo abbiamo sentito ieri pomeriggio e ci ha raccontato le ragioni di una sconfitta che, a suo dire, porta per intero il nome del Partito democratico. Anche se al Senato si dovesse intervenire.

Onorevole Marchi, si è dimesso dal suo ruolo in commissione Bilancio dicendo che avrebbe votato sì alla legge elettorale da soldato semplice: perché non da graduato?

Io approvo la legge perché non mi prendo la responsabilità di fermare il processo delle riforme. Ma penso alle vicende di un passato anche recente. Da una parte non ho condiviso più di tanto il passaggio Letta-Renzi per come è avvenuto: ho dato la fiducia per disciplina di partito, ma non mi è piaciuto il rapporto tra loro due, non si può dire «Enrico stai sereno» e poi preparare un trappolone.

E dall’altra?

Dall’altra in questa vicenda il Pd è responsabile della mancata approvazione degli emendamenti, aveva i numeri per farlo. Renzi nella sua intervista da Fazio ha di fatto legittimato, sulla questione, un voto contrario agli elementi fondativi del Pd. Io non posso più essere capogruppo in un luogo delicato come la commissione Bilancio in un gruppo che fa queste cose. Devi sentirti in piena sintonia con governo e con il partito…

La sintonia si è rotta anche sugli altri punti della legge?

Per gli altri emendamenti ho votato secondo le indicazioni del partito, ma con quegli interventi sulla parità di genere il testo veniva nettamente migliorato, ora è quasi indigeribile. Questa è la seconda legge elettorale che viene approvata senza rispettare le modifiche costituzionali sulle pari opportunità. È un fatto grave, spero che si recuperi al Senato, ma la gravità resta. I gruppi di Pd e Forza Italia avevano dato libertà di voto e, ripeto, a Montecitorio i voti li avevamo.

camera italicum parità di genere maino marchi

Il voto segreto è stato chiesto da Forza Italia per mettere in difficoltà il Pd?

È evidente che la loro richiesta del voto segreto ha portato a questo risultato. Pensi agli interventi del Pd in aula: tutti sono stati a favore degli emendamenti, almeno una ventina, ma poi il voto è stato diverso, quindi la responsabilità è tutta nostra. Faccia due conti: il Pd alla Camera ha nel gruppo 293 deputati, i voti a favore degli emendamenti sono stati tra 214 e 253. Se poi considera che nelle altre forze politiche c’è sicuramente chi ha votato a favore, anche stavolta, come con Prodi, sono mancati un centinaio di voti.

Un centinaio, donne comprese…

Certo, chiaro. Che il giorno dopo si cerchi di dare responsabilità alla minoranza è assurdo.

Due di quegli emendamenti tra l’altro mettevano il dito sulla questione più delicata della legge elettorale, di fatto certificando che alla fine dei giochi è il capolista che conta, non il resto dell’elenco.

Anche per questo occorreva almeno che passasse l’emendamento sulla norma antidiscriminatoria. Noi come Pd faremo comunque l’alternanza. In caso di nostra vittoria, anche a causa di una certa differenza di numeri tra noi e le altre forze della coalizione, questo garantirebbe un buon numero di elette, mentre nell’opposizione certamente passerebbero solo i capilista, ovviamente dove questo accade. Se invece vincesse il centrodestra, che ha più equilibrio tra le forze della coalizione, lì sarebbe ancora più facile assistere all’elezione dei soli capilista, per cui è importante intervenire.

vanna iori parità genere

La sua collega Vanna Iori ha sostenuto che ci sono uomini che hanno ancora paura della democrazia paritaria e donne giovani che non hanno capito che i diritti non sono scontati: condivide?

Mi ritrovo, ma aggiungo che o questo comportamento del Pd è autolesionistico, oppure c’è un accordo non scritto che si è dovuto rispettare.

Che cosa intende?

Ho detto che i “no” venuti dal Pd sono stati determinanti, ma per il nostro partito non cambia nulla, perché ci siamo comunque dati la regola dell’alternanza. Devo pensare che i miei colleghi abbiano votato così solo pensando ai possibili candidati di Forza Italia? Si sa, Berlusconi aveva il timore che, approvata alla Camera la modifica sulla parità di genere, al Senato si aprisse un altro film sulle preferenze… ma allora si doveva dire che di fatto c’era e c’è un accordo per modificare le norme sulle candidature al Senato, e solo quelle.

In modo che così al Senato ci sia modo di cambiare solo quella cosa e la Camera non tocchi più nulla?

Più o meno sì. E al Senato i numeri sono ben diversi…

berlusconi

Il timore del Cavaliere era fondato?

Il timore di Berlusconi era un timore ragionevole, in effetti la cosa più appetibile a quel punto sarebbero state le preferenze. Credo che si sarebbe comunque potuti intervenire diversamente: magari si potevano inserire le primarie obbligatorie, specie dalla seconda applicazione, e magari renderle facoltative ma regolate dallo Stato al primo appuntamento elettorale.

Lei diceva prima «si doveva dire che c’era un accordo», ma da giorni si parla di accordi da rispettare…

Questo passaggio ha consolidato l’accordo, ma non si può prendere in giro il gruppo parlamentare, le cose vanno dette chiaramente. Si voleva modificare quel punto al Senato e farlo passare alla Camera? Nessuno l’ha detto chiaramente.

A questo punto, come andrà a finire?

Spero che al Senato, come ha detto il capogruppo Speranza, ci sia lo spazio per cambiare. Ma visto quello che è successo, il Pd ha fatto una figura pessima.




L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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