Il primo passaggio parlamentare si è compiuto. Per la nuova legge elettorale, però, non sarà il penultimo: è quasi certo che a Palazzo Madama qualche modifica (non unilaterale) ci sarà, dunque sarà necessario tornare a Montecitorio. Quello che è certo è che l’accordo politico tra i due leader dei partiti maggiori, via via aggiornato, sta reggendo ma con fatica; i partiti medio-piccoli certamente non gradiscono il nuovo sistema elettorale, ma non si stancano di provare a inserirsi nel compromesso Renzi-Berlusconi, se non altro per non farsi dichiarare morti prima del tempo.
Il cammino del cosiddetto Italicum ha comunque attraversato già alcuni punti ripidissimi e stretti, ideali per l’entrata in azione dei franchi tiratori: le incursioni non sono andate a bersaglio, ma è mancato davvero poco.Anche perché il terreno è stato obiettivamente scivoloso, soprattutto sul piano della parità di genere. Lì è andato in scena lo spettacolo della spaccatura delle “donne al Parlamento”, divise tra chi chiedeva il rispetto concreto dell’articolo 51 della Costituzione (attraverso norme che non affidassero alla sensibilità dei partiti la presenza delle candidate in posizione eleggibile) e chi, invece, temeva – da donna – che quegli interventi (più o meno graditi) avrebbero potuto far saltare in qualche modo l’accordo ottenuto.
Le crepe si sono viste soprattutto nel gruppo del Pd (e, anche grazie al voto segreto, non solo lì), ma alla fine sono caduti uno dopo l’altro i tre emendamenti che potevano cambiare le carte in tavola: prima quello che obbligava ad alternare uomini e donne nelle “miniliste”, poi i due che imponevano il rispetto di certe proporzioni sulle posizioni di capolista, a ben guardare i più delicati. Perché, in effetti, toccano il nervo scoperto di questa legge: in definitiva, gli unici che sperano seriamente di essere eletti sono i capilista. Se nella prima posizione (o nelle prime due) può andare sempre un uomo – cosa che, se avvenisse, mostrerebbe una volta di più l’immaturità di questo paese – allora parlare di parità è perfettamente inutile.
Le liste, come è noto, restano bloccate (sono saltate, ma per poco, le proposte sulle preferenze). Gli elenchi ora sono più corti (da 3 a 6 nomi), ma non è detto che questo basti a risolvere il problema del “voto libero” così come lo ha esposto la Corte costituzionale. La trasformazione dei voti in seggi e la distribuzione degli stessi, infatti, non avviene a livello locale, bensì nazionale: lo si fa per non sbarrare del tutto la strada ai partiti di medie dimensioni (che con le soglie di sbarramento hanno il loro daffare), ma questo congegno può creare problemi. Può capitare che il voto di un elettore vada a beneficio di candidati di altri territori (che ricevono più seggi per far sì che i partiti ottengano gli eletti dove hanno preso più voti), oppure che – se si rispetta il numero dei seggi affidato alle partizioni territoriali – gli eletti non corrispondano alle aree in cui una lista ha preso più voti.
L’unico sistema per rendere più sicura l’elezione di qualcuno è candidarlo a capolista in più aree territoriali. In altre parole, reintroducendo le multicandidature – fino a 8, nell’ultimo testo – che all’inizio nell’Italicum non c’erano. Ma proprio le candidature multiple hanno permesso agli ultimi tre Parlamenti di essere pieni di “nominati”; il limite di 8 e l’accorciamento delle liste riduce il problema, ma solo in parte: i leader dei partiti (e non solo loro) saranno candidati in 8 dei (massimo) 120 collegi e, se saranno eletti almeno in un’area, rinunceranno alle altre 7 facendo subentrare il secondo in lista, magari mandando in Parlamento chi non era ritenuto eleggibile. E allora addio voto libero.
Il premio di maggioranza è un po’ più corretto rispetto al vecchio sistema, visto che si parla di un 15% per chi – singolarmente o in coalizione – supera il 37% al primo turno (senza poter comunque superare il 55% dei seggi) o prevale al ballottaggio. Il requisito della misura del premio, dettato dalla Corte, è sostanzialmente rispettato, quello della soglia minima sulla carta anche (anche se al ballottaggio non c’è alcuna garanzia sul numero di elettori che partecipa al voto), eppure qualche problema resta. Se per alcuni politologi (a la D’Alimonte) il 53% dei seggi è un premio ridicolo per chi prevale al ballottaggio, resta indigesta l’idea che il premio sia attribuito in seggi sulla base dei voti (e non dei seggi) conseguiti: sommare mele e patate non è mai stata un’operazione saggia.
Restano dubbi seri di opportunità, se non di costituzionalità, sulle soglie di sbarramento, terribilmente alte per le forze non coalizzate e – in generale – troppo variate: anche l’abbassamento al 4,5% potrebbe non essere risolutivo e la distorsione tra voti espressi e rappresentanza potrebbe essere consistente. Resta poi da vedere come i partiti cercheranno di far saltare il banco al primo turno: se si deve prevedere un’infornata pazzesca di simboli inconsistenti e “acchiappeschi” (a la Proietti), che cerchino di intercettare la protesta, ma siano rigorosamente coalizzati con i partiti maggiori, ci sarà da vederne delle belle (o delle pessime).
Da ultimo, c’è il “lodo D’Attorre”. Ossia l’applicazione dell’Italicum alla sola Camera. È verosimile che l’idea di votare in parte con questo sistema e in parte con il Porcellum “depurato” dalla Consulta (che comunque lascia fuori dal Parlamento tutti i partiti che non superino a livello regionale l’8% e che le sigle maggiori non abbiano acconsentito a far entrare in una coalizione, una cosa abbastanza anomala) non piaccia a nessuno o quasi. Questo dovrebbe essere, in teoria, un incentivo ad arrivare quanto prima – ma non in tempi brevissimi, perché non si può – a una riforma del Senato, che non lo renda più elettivo nel modo in cui lo si conosce oggi. O, per lo meno, con un intervento in versione smart, a limitare il rapporto di fiducia alla sola Camera. Nel frattempo, la legislatura non può che allungarsi e il voto si allontana, almeno per un po’: a qualcuno non piace per niente, mentre c’è chi non aspettava altro.