Mr. Jones, ha un’assicurazione sulla vita. Mr. Jones è anziano e malato terminale, non ha una speranza di vita particolarmente lunga, e per di più fatica a pagare il premio della compagnia assicurativa e in generale a tirare avanti. Ha un disperato bisogno di soldi.
Alla sua porta si presenta un giorno Mr. Brown, broker finanziario. Mr. Brown fa un’offerta all’anziano Mr. Jones: Mr. Brown è disposto sostanzialmente a rilevare l’assicurazione sulla vita di Mr. Jones, pagandola sull’unghia una frazione della quota che questi incasserà alla sua morte (generalmente il 40%). In questo modo Mr. Jones avrà una iniezione di liquidità che soddisfa il suo bisogno contingente, e Mr. Brown avrà pagato per un credito presso la compagnia assicuratrice pagandolo una frazione del valore che incasserà in futuro. Naturalmente, più a lungo vivrà Mr. Jones, più si assottiglierà il margine di guadagno per Mr. Brown, con il rischio addirittura di trasformare l’investimento in perdita nel caso in cui Mr. Jones dovesse ancora vivere molto a lungo.
[ad]Ciò che esce fuori da questo processo è un vero e proprio prodotto finanziario, che può essere scambiato sul mercato, aggregato in veri e propri pacchetti e ritrovarsi così nei portafogli di inconsapevoli risparmiatori, fondi pensione o nella capitalizzazione delle stesse banche e assicurazioni. Un prodotto a rischio relativamente basso – tutti dobbiamo morire – ma che forse evidenzia uno dei volti più feroci e rapaci del capitalismo sfrenato.
Chiamati formalmente Life Settlement Backed Securities ma conosciuti ai più con il triste nome dideath bonds, simili strumenti finanziari non sono precisamente una novità nel panorama dei prodotti messi a disposizione dalle banche e dalle assicurazioni: conobbero anzi un vero e proprio momento di gloria nella seconda metà degli anni ’80, quando era al culmine la piaga dell’AIDS e centinaia di speculatori piombarono sui malati terminali di questa terribile malattia per offrire loro il viatical settlement, come allora era chiamata la vendita della polizza assicurativa sulla vita.
I progressi della medicina, uniti alle numerose cause legali contro il comportamento piratesco di alcuni promoter, calmierarono il mercato dei death bonds senza tuttavia estinguerlo; gli ultimi anni hanno tuttavia visto il ritorno in auge di questo strumento: da un valore quasi nullo di obbligazioni scambiate nel 2001 si è passati, in accordo con quanto riportato dall’articolo Profiting From Mortalitypubblicato su Businessweek il 30 luglio 2007, a dieci miliardi di dollari nel 2005, a quindici nel 2006 e ad un risultato atteso di trenta per il 2007. Una crescita esponenziale, accompagnata da pratiche che variano dal discutibile al truffaldino, da un accanimento sui membri più deboli, anziani e malati della popolazione la cui morte diventerà fonte di profitto per il mercato globale.
La novità finanziaria degli ultimi tempi è che i death bonds varcano l’Atlantico per approdare nel Vecchio Continente, trovando per di più un emettitore d’eccezione: nientemento che la Deutsche Bank, quarto gruppo europeo per capitalizzazione e primo in Germania… un Paese che oggigiorno è già fin troppo facile legare ai grandi gruppi bancari. Soprattutto il gruppo che, per bocca del suo presidente Josef Ackerman, aveva dichiarato che la banca sentiva una particolare responsabilità nel perseguire scopi economici in modo onorevole e morale:
Als Marktführer in Deutschland und eine der führenden Banken weltweit sehen wir uns in einer besonderen Verantwortung, uns nicht nur an gültige Regeln und Vorgaben zu halten, sondern unsere ökonomischen Ziele auf ehrbare, d.h. moralisch vertretbare Weise zu erreichen.
Cosa c’è di immorale nei death bonds, dopotutto?
Colui che vende la polizza, in fondo, riceve dei soldi di cui ha – evidentemente – un bisogno immediato; per la compagnia nulla cambia, se non il destinatario a cui verserà l’ammontare pattuito alla morte del contraente; e per il compratore, infine, si prospetta un guadagno a termine pari all’ammontare incassato dalla compagnia assicuratrice meno il prezzo di acquisto della polizza ed i premi pagati fino al momento della morte del contraente. Tutte le parti, quindi, hanno motivi di soddisfazione.
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[ad]Andando però a indagare nel dettaglio, emergono alcuni punti che consentono di inquadrare meglio il fenomeno.
In primo luogo è evidente che, per quanto la vendita della polizza possa essere volontaria, si tratta pur sempre di una rinuncia dettata da un bisogno impellente di liquidità; inoltre la vendita della polizza avviene a prezzi nettamente squilibrati a favore dell’investitore e contro il contraente, che arriva a rinunciare al 60% del proprio incasso finale (al netto dei premi ancora da pagare).
Si potrebbe osservare che alla fine il trasferimento della polizza dal contraente all’investitore trasla lo scontro tra chi perde e chi guadagna ad un mondo puramente finanziario: alla fine sarà uno tra la compagnia assicurativa e l’investitore a vincere la scommessa… non bisogna però dimenticare che in questo caso la scommessa è sulla durata di una vita umana, ed il margine di profitto è costituito per la compagnia assicurativa dalla differenza tra premio e somma versata alla fine, e per l’investitore tra somma versata e prezzo di acquisto polizza più premi pagati. Da questo punto di vista il prodotto finanziario avrebbe come obiettivo principalmente le assicurazioni, ma non si deve dimenticare che spesso la differenza tra attivo e passivo viene fatta proprio sui premi pagati inizialmente dal contraente.
Infine, non si deve trascurare un importante risvolto etico e morale; non tanto incentrato sull’atto in sé di scommettere sulla durata della vita di una persona, quanto piuttosto sul sistema valoriale che la ricerca della vittoria in questa scommessa porta a generare: il contraente originale della polizza varrà tanto di più quanto minore è la sua aspettativa di vita, rendendo una persona un premio tanto più ambito quanto più è anziana o inferma… e per molti aspetti, quindi, raggirabile da un abile promotore finanziario. Inoltre, dal punto di vista macroeconomico, i death bond costituiscono un valido indicatore della qualità della vita: tanto più essa è bassa, tanto maggiore sarà il giro di affari di questi prodotti. Scenari di guerra, o di disagio sociale, sono una manna per gli investitori sulla vita e sulla morte delle persone. Al tempo stesso, considerata l’attuale, profonda, commistione tra potere economico e potere politico, non vi è nulla che vieti a politici interessati di avviare riforme tese verso un generale peggioramento della qualità della vita.
È innegabile che le politiche di austerity relative al tema previdenziale, che prevedono un innalzamento dell’età pensionabile fino alle soglie dei 70 anni nei prossimi decenni, unito al progressivo invecchiamento della popolazione europea, siano al contrario un incentivo per i death bond.
E non è un caso se importanti agenzie di rating come Fitch stiano per la prima volta prendendo in esame la possibilità di offrire valutazioni su simili prodotti, atto mai accaduto in passato.
Sicuramente il diffondersi di simili strumenti certamente non giova all’immagine generale del mondo del credito e della finanza, già da ora additati come i principali responsabili dell’attuale crisi economica. Eppure, imperterrito, questo mondo continua a (re)inventare prodotti finanziari sempre più shockanti, che arrivano a giocare con la vita delle persone in una maniera mai vista prima.