Caro Presidente,
numeri alla mano – quelli pubblicati dalla Commissione Europea nelloscoreboard sull’attuazione dell’agenda digitale – il nostro Paese soffre di un ritardo destinato a divenire presto incolmabile rispetto al processo di digitalizzazione in corso nel resto d’Europa.
Abbiamo un solo primato ed è di segno negativo: quello del numero di cittadini che non hanno mai usato Internet.
Siamo, invece, ampiamente al di sotto della media europea in relazione a tutti gli altri indici di misurazione dello stato di attuazione dell’agenda digitale europeo.
È, sfortunatamente, una situazione che è stata “certificata” nei giorni scorsi anche dal centro studi della Camera dei Deputati che ha rilevato come la più parte delle iniziative legislative in materia di digitalizzazione del Paese siano rimaste senza seguito ovvero senza i regolamenti e decreti attuativi attraverso i quali avrebbero dovuto prendere corpo e tradursi da petizioni di principio in preziosi strumenti normativi di digitalizzazione.
È un contesto nel quale, senza un’inversione di rotta tempestiva, radicale e decisa il destino del nostro Paese appare ineluttabilmente segnato: saremo, nella migliore delle ipotesi, una colonia semi-digitale degli altri Paesi europei e un minuscolo mercato da depredare e saccheggiare fino ad esaurimento per il resto del mondo.
Non è una situazione figlia del caso ma di una lunga ed interminabile sequenza di scelte di politica dell’innovazione scellerate attraverso le quali abbiamo sperperato talenti, primati e potenziali innovativi di valore, probabilmente, maggiore rispetto a quelli di molti altri Paesi europei ed extra europei.
È accaduto perché nell’agenda politica del nostro Paese Internet, la Rete, il digitale e l’innovazione sono sempre stati trattati come temi sussidiari, accessori, opzionali da posporre a tutti gli altri.
Mai – o quasi – si è guardato alla politica dell’innovazione come parte integrante della politica nazionale ed internazionale e come questione centrale da porsi ed affrontare per governare il Paese e dare un futuro a quelle che sono state, troppo in fretta, bollate come generazioni perdute e che, in realtà, erano – e, forse, restano – generazioni che stiamo perdendo perché le stiamo privando della possibilità di confrontarsi, alla pari – nell’ecosistema globale e digitale nel quale si trovano e si troveranno a vivere – con i cittadini del resto del mondo.
Se questo è accaduto – bisogna dirselo con grande franchezza – è perché l’agenda politica italiana è stata dettata, quando addirittura non è stata scritta direttamente, dai detentori dei poteri forti della c.d. old economy e, soprattutto – e si è trattato, probabilmente, di una peculiarità tutta nostra – da alcuni dei Signori dei media tradizionali, preoccupati che Internet ed il digitale rimettessero in discussione inossidabili equilibri di potere e posizioni di forza.
È accaduto così che alla serie degli straordinari ritardi nell’attuazione dell’agenda digitale europea oggi certificati ineludibilmente dalle istituzioni europee e da noi stessi, si sono aggiunte e sovrapposte una serie di macroscopiche anomalie che hanno inciso, incidono e minacciano di incidere in modo sempre più rilevante sulla crescita culturale, democratica ed economica del nostro Paese.
Siamo nell’unico Paese al mondo nel quale si è lasciato che un’Autorità amministrativa indipendente – l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – svolgesse un ruolo di “supplenza legislativa” che non le compete, scrivendo le regole per la tutela del diritto d’autore online ed auto-attribuendosi il potere di ordinare la rimozione o il blocco di qualsiasi contenuto – anche informativo – pubblicato online nello spazio di una manciata di giorni.
Siamo nell’unico Paese in Europa che abbia deciso di affrontare nel modo sbagliato un problema reale come quello della fiscalità nei mercati telematici.
Mi riferisco alla dilettantistica vicenda della web tax che – come le è ben noto – il Parlamento ha approvato tra le pieghe della legge di Stabilità contro il parere del ministero dell’economia e del centro studi della Camera dei deputati e che, prima, un governo si è visto costretto a congelare con un provvedimento d’urgenza e, poi, un altro governo – il suo – si è visto costretto, altrettanto d’urgenza, ad abrogare.
Siamo in un Paese nel quale ogni volta che qualcuno abusa della libertà di parola sul web, si minaccia di privare tutti di tale libertà, colpevolizzando il mezzo anziché i singoli individui che lo usano e prendendosela con la tecnologia e l’anonimato che essa consentirebbe anziché con la diffusa ignoranza figlia, almeno in buona parte, proprio della subcultura diffusa e propagandata per decenni da quei media tradizionali che, oggi, non perdono occasione per puntare l’indice contro la Rete ed i suoi utenti.
È un elenco di gravi anomalie democratiche che potrebbe, purtroppo, continuare ancora a lungo e che negli anni ha fatto – a più riprese – carne da macello di quei diritti di cittadinanza digitale che, al contrario, oggi meriterebbero, innegabilmente, di essere riconosciuti quali diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino del XXI secolo.
È una situazione che non meritiamo perché il nostro Paese è stato – e potrebbe tornare ad essere – culla di ben altra cultura giuridica e di ben diverse sensibilità verso il digitale, l’innovazione ed il futuro delle generazioni che verranno.
Non Le sarà sfuggito, che lo scorso 12 marzo, Tim Berners Lee, l’inventore del web, in occasione dei primi 25 anni di vita della sua creatura, ha chiesto l’adozione di una Magna Charta per i diritti digitali online.
La notizia ha fatto il giro del mondo ma la richiesta di Sir Berners Lee non è nuova.
Era il 13 novembre 2007, infatti, quando a Rio de Jainero, il ministro della cultura brasiliano ed il nostro sottosegretario alle comunicazioni firmavano una dichiarazione congiunta impegnandosi a promuovere un Internet bill of rights, una carta di principi e diritti fondamentali che avrebbe dovuto occuparsi, tra l’altro di privacy, libertà di informazione, diritto di accesso alla rete e net neutrality.
Avevamo, dunque, intuito oltre un lustro prima dell’inventore del web – lo scrivo a mo’ di battuta ma con un pizzico di orgoglio nazionale – l’esigenza di una Magna Charta che valesse a cristallizzare i diritti fondamentali di cittadinanza digitale.
Era, invece, il 29 novembre 2010 quando, nel corso dell’internet governance forum Italia, a Roma, Stefano Rodotà, annunciava l’esigenza di presentare un disegno di legge di riforma costituzionale, per introdurre un art. 21 bis che recitava così: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”.
Ci sono, oggi, in Parlamento due disegni di legge che danno corpo a quella felice intuizione ma, naturalmente, il loro esame deve ancora iniziare, perché altre e diverse sono state, sin qui, le priorità dell’attività parlamentare e di Governo.
Cosa fare, dunque, per invertire la rotta e consentire al nostro Paese di riappropriarsi della leadership culturale e politica che merita nella governance della rete?
C’è, sicuramente, tanto da fare ma mi permetto di suggerirgliene, tra le tante, una.
Istituire una nuova costituente digitale incaricandola di scrivere il draft di una Magna charta dei diritti di cittadinanza digitale con la quale inaugurare il nostro semestre di presidenza europea, invitando gli altri Paesi a fare altrettanto, così da arricchire la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Se accettasse, la Presidenza di questa nuova costituente potrebbe essere affidata a Stefano Rodotà, il cui contributo all’elaborazione di un bill of rights della cittadinanza digitale viene da lontano ed è universalmente riconosciuto in Italia come all’estero.
Netneutrality, diritto di accesso a internet, diritto d’autore, libertà di espressione in rete, diritto al lavoro in digitale, egov e edemocracy sono alcuni dei temi dei quali la Magna charta dovrebbe certamente occuparsi, temi che vanno necessariamente sottratti alle dinamiche del mercato ed alle regole fluide, ondivaghe e troppo facilmente influenzabili dei parlamenti nazionali.
Una carta fondamentale dei diritti dell’uomo e del cittadino digitale da portare in Europa e, poi, dall’Europa nel mondo per tornare ad essere almeno colonizzatori culturali ed evitare di diventare una colonia economica e industriale altrui.