Ora è ufficiale: Silvio Berlusconi è interdetto per due anni dai pubblici uffici. E, come tale, non può essere elettore per quel periodo, né tanto meno essere eletto. E’ arrivata poco dopo le 22 , dopo cinque ore di camera di consiglio, la sentenza della Corte di Cassazione che rende definitiva la condanna alla pena accessoria all’ex presidente del Consiglio, dopo che il 1° agosto dello scorso anno la sezione feriale della Suprema Corte aveva già confermato la condanna a quattro anni del Cavaliere per frode fiscale nell’ambito del processo “diritti tv Mediaset”.
I giudici hanno ritenuto “irrilevanti” i motivi della difesa dell’ex premier – in particolare, non accogliendo le richieste di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulle norme applicabili, né tanto meno di trasferire il caso alla corte di Strasburgo. Berlusconi, tra l’altro, è stato pure condannato al pagamento delle spese processuali. Ora il Cavaliere, essendo interdetto dai pubblici uffici, non può esercitare il diritto di voto (ovviamente solo in via temporanea) e, a maggior ragione, non può essere votato. Sfuma dunque la possibilità, adombrata in questi giorni, di una sua candidatura alle elezioni europee.
Il Procuratore generale della Corte di cassazione Aldo Policastro aveva chiesto che fossero confermati i due anni di interdizione calcolati dalla Corte d’Appello di Milano. Nello specifico, il Pg della Suprema Corte ha ritenuto conforme ai criteri costituzionali la condanna stabilita dalla Corte d’appello e per questo ha chiesto alla terza sezione penale della Corte di cassazione che “sia rigettato il ricorso” presentato dai legali di Berlusconi, i quali avevano chiesto l’annullamento della pena accessoria o, in subordine, il ricalcolo a un anno.
La difesa di Berlusconi, rappresentata dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini, aveva chiesto invece di trasferire gli atti processuali al Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo oppure inviare gli atti alla Corte Costituzionale o, in ultima soluzione, disporre un nuovo processo d’Appello.
Diametralmente opposta la tesi accusatoria del Pg, che attirava l’attenzione della corte sul fatto che, tra i motivi che rendono inammissibile il ricorso e l’annullamento della pena, rileva anche che “l’estinzione del debito tributario non è ancora avvenuta, e non è stata chiesta neanche la remissione in termini”.
Non era invece degna di nota, per la pubblica accusa, l’invocata prescrizione perché comunque “si deve tenere presente che la condotta è in ogni caso ascrivibile al ricorrente”. Concludendo, secondo il Pg, “la determinazione della pena in due anni di interdizione dai pubblici uffici corrisponde a criteri previsti dalla Costituzione e pertanto chiedo il rigetto del ricorso”.