In fondo è probabile. E’ molto probabile che qualcuno arrivi a definire quella della Corte di cassazione sull’interdizione dai pubblici uffici di Silvio Berlusconi come “una sentenza a orologeria”: i sospetti sono stati dichiarati a mezzo stampa lungo tutta la storia giudiziaria del Cavaliere e non sembra esserci motivo perché non accada anche questa volta. Tanto più che la decisione della Suprema corte arriva a due mesi e qualche giorno dall’apertura delle urne per il rinnovo del Parlamento europeo e – soprattutto – a poco meno di un mese dalla scadenza del termine per presentare le liste per quelle stesse elezioni.
Al di là di queste possibili polemiche, però, la decisione della Corte di cassazione in effetti arriva giusto in tempo per “risolvere” la partita delicatissima legata all’incandidabilità di Berlusconi e alla sua intenzione dichiarata di essere inserito in cima alle liste che Forza Italia presenterà alle elezioni europee. Con le poche righe della sua decisione, la terza sezione penale della Cassazione presieduta da Claudia Squassoni ha d’un colpo trasformato l’idea che il Cavaliere potesse candidarsi per approdare a Strasburgo in un’ipotesi del tutto inattuale.
Lo dice, in particolare, l’articolo 28 del codice penale, nel definire l’interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria. Lì chiunque può leggere che l’interdizione temporanea “priva il condannato della capacità […] di esercitare o di godere, durante l’interdizione” di una serie di diritti (citati per esteso parlando dell’interdizione perpetua), a partire dal “diritto di elettorato o di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale”. Parlamento europeo compreso quindi. Più ampiamente, dal momento in cui la sentenza della Cassazione sarà ricevuta e trascritta dal suo comune di residenza, per 24 mesi Berlusconi non potrà votare né essere eleggibile a qualunque tipo di elezione.
A voler essere precisi al millimetro, tra ineleggibilità e incandidabilità corre una certa differenza: la seconda agisce “a monte”, cioè preclude anche solo l’inserimento in lista, mentre l’ineleggibilità sulla carta non impedisce che chi ne è affetto sia candidato – e le istruzioni pubblicate in questi giorni dal Ministero dell’Interno non dicono nulla di diverso – ma in ogni caso priva l’eventuale candidatura di ogni efficacia. In altre parole la “agibilità politica”, finché dura l’interdizione, è pari a zero. Anche perché l’interdizione, fino alla sua cessazione, priva il condannato “di ogni altro diritto politico” diverso da quello elettorale.
A questo punto, diventa del tutto inutile chiedersi se Silvio Berlusconi può candidarsi alle elezioni europee. Del resto, anche quando Giovanni Toti e altri soggetti insistevano sull’ipotesi che il Cavaliere fosse inserito in lista, in tanti si sono concentrati sul dilemma “può / non può candidarsi”, quando probabilmente sarebbe stato meglio chiedersi perché Berlusconi voleva candidarsi.
La risposta, a ben guardare, non era affatto scontata: le componenti da considerare erano diverse. Immaginando lo scenario che si sarebbe potuto produrre, entro le ore 20 del 16 aprile i rappresentanti designati da Forza Italia avrebbero presentato le liste per ognuna delle cinque circoscrizioni individuate, consegnandole agli uffici presso le cancellerie delle corti d’appello di Milano, Venezia, Roma, Napoli e Palermo. Entro il 19 aprile, ogni ufficio circoscrizionale, a norma della “legge Severino”, avrebbe cancellato il nome di Silvio Berlusconi dalla lista dei candidati, stante la sua condizione di incandidabilità e i giornali ne avrebbero dato puntualmente notizia.
A quel punto, il primo risultato sarebbe stato raggiunto: Berlusconi e il suo entourage avrebbero avuto l’ennesima occasione di parlare di persecuzione, di norme e atteggiamenti liberticidi, mettendo in scena un copione vittimistico rappresentato sin qui con molto impatto e (bisogna ammetterlo) molto successo. Lo stesso testo, peraltro, sarebbe stato replicato – al massimo entro tre giorni – dopo la conferma dell’esclusione del Cavaliere da parte dellUfficio elettorale nazionale presso la Cassazione, cui certamente Forza Italia avrebbe fatto ricorso: anche quei magistrati non avrebbero potuto far altro che applicare le norme del 2012 in materia di incandidabilità, cancellando il nome di Berlusconi.
Contro le decisioni dell’Ufficio elettorale nazionale, però, è ammesso il ricorso al Tar del Lazio (e, in seconda battuta, al Consiglio di Stato) per tentare di bloccare l’efficacia di quelle stesse decisioni, proprio perché mettono in discussione il diritto di una persona o di un gruppo di partecipare alle elezioni. In quell’occasione, certamente il collegio dei legali di Berlusconi avrebbe chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla “legge Severino”: cadendo quella, il Cavaliere sarebbe stato nuovamente (e immediatamente) candidabile.
Quell’atto, però, non sarebbe bastato. I collegi giudicanti, infatti, probabilmente avrebbero respinto le richieste del ricorrente Berlusconi. Il codice del processo amministrativo, infatti, prevede tempi strettissimi di decisione: il ricorso va presentato entro tre giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato, l’udienza si celebra entro tre giorni dal deposito del ricorso e la sentenza si pubblica nello stesso giorno in cui l’udienza si conclude. In queste condizioni, sospendere il processo per attendere la decisione della Consulta sarebbe stato improponibile: la sentenza sarebbe giunta ben dopo la data delle elezioni, ma nel frattempo il giudice non avrebbe potuto “anticipare” la Corte, ordinando il reinserimento di Berlusconi nelle liste. Né tanto meno si poteva pensare di rinviare le elezioni (la cui data è stabilita a livello europeo).
Morale, quasi certamente (a meno di avventure giuridiche difficili da immaginare) sarebbe arrivata una bocciatura. E il Consiglio di Stato verosimilmente l’avrebbe ripetuta. A quel punto, alla difesa di Berlusconi sarebbe rimasta solo la possibilità di impugnare, a elezioni concluse, l’atto di proclamazione degli eletti e quello della sua cancellazione in un colpo solo: dopo il voto ci sarebbe stato tutto il tempo, in teoria, di valutare la costituzionalità della “legge Severino”. Ovviamente, se la Consulta avesse scoperto che la norma che prevede l’incandidabilità era incostituzionale, si sarebbe aperta una partita ancora più delicata, dagli esiti imprevedibili (qualcuno avrebbe chiesto l’annullamento delle elezioni europee, non è dato sapere con quali risultati).
Con l’interdizione dai pubblici uffici, invece, si spazzano via – almeno per due anni – tutti questi problemi. In linea di principio, infine, non li avrebbe risolti nemmeno la grazia che qualcuno ha ripreso a invocare: è vero che a questo punto la condanna è interamente definitiva, ma vale la pena ricordare che di norma il provvedimento di grazia non estingue le pene accessorie (e il Quirinale ha già elegantemente fatto notare la scarsa opportunità di graziare chi ha altri procedimenti in corso, già contrassegnati da condanne non definitive) e, non cancellando la condanna, non è affatto detto che faccia venire meno l’incandidabilità. Al momento, in ogni caso, questo scenario non ha un briciolo di fondamento e non vale la pena ragionare di fantascienza.