La complessa vicenda delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN), reclama chiarezza. La chiedono le Università in attesa di reclutare, la chiedono i candidati, in attesa di entrare nei ruoli della docenza, forse la chiedono anche alcuni Commissari, almeno quelli (la maggior parte spero) che non hanno scambiato il rilascio di una patente di guida con la messa in moto di una Ferrari. […] Se i meccanismi non sono sufficientemente agili, agevoli, veloci, il rischio di creare ‘tappi’, ritardi, elefantiasi procedurali e di disattendere le aspettative diventa certezza. E allora non resta che restituire i diritti strappati nel presente […] e immaginare un meccanismo semplice e che dia garanzia di continuità nel futuro. In altri termini, non mi sento di garantire un terzo ‘concorsone’ abilitante.
Così si è espressa Stefania Giannini, ministra dell’Istruzione del governo Renzi, il 10 marzo, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova. Questo passaggio del suo discorso, che ha avuto peraltro assai poca circolazione nei media “generalisti”, è stato di gran lunga il più discusso tra gli addetti ai lavori. In primo luogo, ciò è avvenuto perché quello sulle assegnazioni delle idoneità ai ruoli accademici è stato l’unico passaggio di commento a un elemento “operativo” dell’attività amministrativa degli atenei, nell’ambito di una comunicazione piuttosto “rituale” in cui si sono ripetuti gli intenti e le buone intenzioni che da un trentennio caratterizzano il ministero con i risultati che sono a tutti evidenti. A parte questo, anche il tono del giudizio è stato significativo. La ministra ha infatti fatto proprio uno degli elementi di critica più diffusi all’ASN, ovvero la sua trasformazione da verifica dei requisiti minimi per ricoprire un ruolo di insegnamento all’università a “sbarramento” che ha selezionato, in pratica, un numero di candidati non molto superiore a quello che verosimilmente sarà possibile assorbire nei prossimi anni.
Le varie parti in causa hanno interpretato l’annuncio del ministro, che preconizzava una revisione profonda dei meccanismi di assunzione con forme più fluide e più semplici, secondo le linee interpretative ormai cristallizzate sulla linea di faglia tra detrattori e sostenitori dell’ASN. Per i primi, la presa di posizione di Giannini indica la presa di coscienza dell’insostenibilità di un sistema in cui un numero ristretto di ordinari, peraltro non rappresentativi della comunità scientifica perché decisi attraverso un complicato processo selezione dall’alto e sorteggio, decidono del futuro professionale di generazioni in modo così netto e senza margini di riparazione. Per i secondi, invece, il ridimensionamento del peso delle abilitazioni è finalizzato essenzialmente a mettere tra parentesi il presunto “criterio del merito” che le ha guidate e a ridare libertà di scelta alle sedi locali, che con un’ASN a maglie più larghe avranno meno ostacoli a gestire reclutamento e promozioni nei termini di sanatoria dei precari “storici” che hanno tirato la carretta garantendo i corsi necessari a tirare avanti e la massa critica dei dipartimenti, magari senza potersi esprimere a livelli di qualità internazionale come ricercatori. Da questo punto di vista, l’accoglimento di alcune critiche all’abilitazione scientifica farebbe il paio con un altro intervento in cui la Giannini aveva mostrato grande freddezza per i criteri di accreditamento dei dottorati di ricerca impostati il 21 febbraio scorso dall’Agenzia di valutazione dell’università (ANVUR), considerati molto appiattiti nella verifica della qualità dei collegi didattici sui valori usciti dalle procedure di valutazione dei docenti. Il fatto poi che la ministra, come i suoi due predecessori, sia stata rettrice di un ateneo, ha portato con una certa facilità a concludere che il suo impegno per restituire margine di manovra ai governi locali delle università non fosse del tutto innocente, e fosse invece dovuto ai suoi rapporti con chi in quelle articolazioni amministrative era parte in causa.
In realtà, a me sembra che da un lato la posizione di Giannini sia ancora troppo superficiale per esprimere una posizione chiara e netta sulla questione dell’ASN, dall’altro è indice, insieme alle reazioni che ha suscitato di quanto ancora siano del tutto irrisolti i problemi strutturali che hanno reso finora inefficaci le riforme della politica universitaria che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.
Sul caso specifico, infatti, procedere a una riforma delle abilitazioni può essere, più che un tentativo di affossarle, un passaggio obbligato per rafforzarne la legittimità. Come ho sottolineato in un mio intervento in proposito, coinvolgere nell’ASN porzioni più ampie della comunità accademica, rendere la verifica meno “secca” e unilaterale assimilandola di più all’acquisizione progressiva di titoli, e superare le logiche a tenuta stagna dei settori disciplinari rigidamente suddivisi, sono passaggi migliorativi abbastanza facilmente applicabili che potrebbero rendere più efficiente, e più legittima agli occhi degli studiosi e delle istituzioni.
Bisogna però dire che il punto sollevato in forma esplicita da Giannini con le sue parole, ovvero la tendenza a limitare “artificialmente” il numero dei candidati così da renderlo più o meno compatibile con le presumibili possibilità di assunzione, non è stato il frutto una iniziativa accidentale dei commissari. La scelta di ricorrere a commissioni nazionali di settore aveva proprio l’obiettivo, non scritto ma evidente, di “calmierare” la concessione dei titoli di idoneità potendo ragionare sui numeri di tutto il sistema. E del resto anche un sistema amministrato di concessione di idoneità e di selezioni a passaggi progressivi (l’esempio sempre classico, per la sua durata e complessità, è quello francese) ha innanzi tutto il compito di limitare il numero di aspiranti docenti e ricercatori universitari rendendolo sostenibile, orientando a volte con la durezza dell’esclusione le scelte di vita e di studio di migliaia di giovani. Costruire passaggi simili con gradualità avrebbe richiesto anni di rodaggio, in una situazione in cui il vecchio sistema di reclutamento era stato cancellato con una ignominia che forse meritava solo in parte, senza soluzioni transitorie per assegnare posti, e in cui la necessità di far fronte al crescente bisogno di “braccia” per insegnamento e ricerca portava all’accumulazione di personale precario in attesa privo di prospettive di stabilizzazione. SI è quindi pensato di far presto e bruciare le tappe per smuovere una situazione altrimenti insostenibile, anche di fronte a provvedimenti di riforma, come quelli del 2010, pensati essenzialmente per ridurre in modo rapido e progressivo il regime di spesa degli atenei, senza alcuna reale strategia di rilancio successiva.
In altri termini, la critica della ministra mette il dito, non so quanto consapevolmente, su una questione di cui deve essere intesa chiaramente la radice.
Sintetizzando al massimo un tema di cui ho già tentato altrove un’analisi più articolata, si può notare in primo luogo che la gestione dell’università italiana si è storicamente giocata sul solco di una reciproca diffidenza: quella tra la burocrazia ministeriale centrale, e amministrazioni accademiche locali. Le seconde, che in diversi casi preesistevano alla prima e hanno costruito e mantenuto reti di relazione autonome, guardano generalmente al governo come a un importuno controllore del rubinetto del loro ossigeno, che intende disciplinarle politicamente usando l’arma del denaro. Dal canto suo il centro non ha mai avuto particolare fiducia nelle scelte di gestione effettuate localmente, soprattutto nel reclutamento, e pur non avendo mai avuto la forza di imporre una gestione pienamente “nazionalizzata” di concorsi e distribuzioni delle risorse ha sempre cercato di porre paletti e limiti alle possibilità di scelta con norme e circolari interpretative.
In questo conflitto sotterraneo i canali di mediazione sono sempre stati opachi e mal congegnati, soprattutto perché si è sempre evitato di esprimere i contrasti di interessi in forma trasparente e si è ricorso, nel discorso pubblico, alla narrazione di una presunta unità d’intenti del sistema e delle sue articolazioni di gestione. Così, si è passati da una centralizzazione in cui la competizione tra le sedi locali si dipanava soprattutto nei tentativi di istituire canali informali di contatto con i decisori delle politiche ministeriali così da attirare verso di sé le agognate risorse, e un’“autonomia” che invece di mettere apertamente a confronto le scelte della politica e la capacità della scienza di organizzare al meglio il proprio lavoro assumendosene le responsabilità, è diventata nelle parole dei commentatori più acuti una sorta di “autogestione”, ovvero il “liberi tutti” accordato a comunità locali prive degli strumenti giuridici e culturali di progettarsi da sole, costrette a seguire disegni e strategie pensati dall’alto, ma non più gravate dai lacci di controlli rigidi del proprio operato.
Anche il “sistema ANVUR” che ha trovato applicazione nel 2010 si muove su questo equilibrio senza cercare di scardinarlo: al di là dei paragoni con agenzie a composizione simile e con presupposti teorici analoghi che nel resto d’Europa sono state impiantate a seguito dei dettami del Bologna process, nel contesto italiano l’istituto finisce per assumere essenzialmente il ruolo di elemento limitante e disciplinante l’azione del potere delle singole sedi secondo le direttive del ministero. Al di là dello sforzo dei suoi componenti, sicuramente sincero e in parte anche riuscito, di elaborare una tavola di valori della qualità del lavoro scientifico per regolare la distribuzione delle risorse e delle posizioni di ruolo, l’ANVUR si trova di fronte a un ministero che da circa un decennio è privo di una politica universitaria che non sia quella della riduzione della capacità di spesa del settore, così da poter risparmiare il più possibile nel campo dell’istruzione superiore e della ricerca al fine di sprecare le stesse risorse in ambiti che si ritengono più promettenti per la creazione di consenso. In questo passaggio, quindi, troppo spesso il riferimento al “merito” e all’“eccellenza” finisce per essere semplicemente un manto retorico per giustificare il minor impegno economico, mentre sull’altro fronte le sedi hanno compensato la riduzione dei fondi con il mantenimento del controllo su alcuni punti-cardine della loro gestione, come l’immissione dei precari nei ruoli attraverso le tenure track, affidata a commissioni interamente nominate dai Senati accademici e destinate a essere vidimate solo ex post da un’abilitazione nazionale che, se verrà annacquata a “alleggerita”, renderà la paura di un possibile fallimento meno realistica.
È quindi anche per questo che, accogliendo almeno in parte le critiche su un ruolo di limitazione dell’“autogestione” locale che l’ANVUR si trovava a fare al di là delle sue competenze, ma costretta dalle sollecitazioni dell’amministrazione centrale, e facendo quindi proprie alcune delle critiche delegittimanti che serpeggiavano tra chi temeva che il riferimento all’ASN potesse diventare una limitazione decisiva delle singole unità accademiche, la ministra Giannini è stata vista forse al di là della realtà come una “paladina delle sedi locali”. Sta a lei dimostrare che, con gli interventi annunciati, non intende più muoversi dando per scontato lo storico “equilibrio del terrore” tra centro e periferia che finora non è stato messo in discussione.
Le mie proposte di riforma rafforzativa dell’abilitazione nazionale hanno già delineato, per quel terreno specifico, gli obiettivi strategici che devono caratterizzare un’azione legislativa che senza stravolgere gli assetti istituzionali attuali (il cui funzionamento non può essere interrotto con la tabula rasa che molti auspicano per l’attuazione di non meglio definiti e peraltro inesistenti “modelli americani”) sia effettivamente riformatrice. Su un piano generale, si possono enunciare così:
- Un’operazione di trasparenza e pulizia intellettuale, in cui le esigenze del centro e della periferia vengano espresse apertamente e trovino un luogo istituzionale di mediazione, senza passare per cunicoli sotterranei incontrollabili. La politica, se rappresentativa della società e dei suoi interessi, ha il diritto e il dovere di elaborare strategie di massima sul ruolo dell’università e della ricerca nello sviluppo collettivo; allo stesso modo le sedi hanno il diritto di perseguire in autonomia quegli obiettivi con gli strumenti più idonei e la necessaria libertà di progettazione, consapevoli della responsabilità di rendere conto dei loro risultati e delle loro procedure.
- Il rafforzamento nella dignità e nel ruolo istituzionale della comunità scientifico-accademica. Quest’ultima è stata spesso messa sul banco degli imputati da un discorso pubblico che individuava nella scarsa pulizia morale dei suoi elementi più rappresentativi, generalmente ritratti come “baroni” o come amebe ad essi sottomesse, i problemi dell’università, e ha salutato con gioia qualunque provvedimento che potesse essere presentato come una loro messa in riga o una loro mortificazione. In realtà queste critiche, che partono da dati assolutamente reali, scambiano spesso i sintomi per cause. In realtà, certi comportamenti sono stati l’adattamento di un gruppo socio-culturale debole e diviso, i cui esponenti hanno potuto intervenire nella gestione del “potere” scientifico e accademico solo appoggiandosi a uno dei due “poteri territoriali”, il centro ministeriale o la periferia locale. In questo modo i settori disciplinari hanno finito spesso per ridursi a playground di mediazione tra poteri accademici, strenuamente difesi nella loro conformazione dagli studiosi più influenti e rappresentativi perché considerati l’unico loro teatro di azione praticabile. È invece necessario invertire questa tendenza: se davvero si intende realizzare un sistema universitario che a tutti i livelli esalti competenze, capacità e talento nella produzione e nella diffusione di conoscenza, questi elementi non possono essere individuati e “misurati” da decreti ministeriali, ma solo dalla comunità che è depositaria di quelle particolari forme del sapere. Gli studiosi in quanto tali devono quindi essere, più che esclusi e “sottomessi”, coinvolti nelle elaborazioni strategiche di alto livello. In una prospettiva a medio-lungo termine la produzione sul piano elettivo, nei diversi campi disciplinari, di qualche sorta di research councils coordinati che interagiscano con il potere politico nell’allocazione delle risorse e si facciano carico della distribuzione dei compiti e della verifica della qualità dei risultati, potrebbe essere un punto di parenza per il vero crack del sistema di governo “bipolare” con l’aggiunta di un terzo elemento davvero strutturato e capace di far valere la sua autorevolezza.
Queste sono realizzazioni che potrebbero dare qualche risultato a lungo termine, senza complicare in modo irrecuperabile il quadro normativo, ma attaccando alcuni elementi di inefficienza alla radice. Muoversi in un’ennesima ristrutturazione dei vecchi schemi consolidati, limitandosi a rivedere le “regole d’ingaggio” tra un’amministrazione ministeriale a corto di soldi e comunità locali che cercano di spremere quanto possibile per i loro interessi, non farà altro che causare ulteriori ritardi, da scontare comunque sulla pelle dei soliti noti, e rimandare una gestione delle risorse che manterrà comunque tutte le criticità del passato.