Non buttiamoci giù, l’amore (non corrisposto) di Nick Hornby per il cinema
Secondo quanto sostengono le statistiche, le festività sono il periodo più difficile per chi soffre la solitudine o la depressione, tanto da essere i giorni dell’anno che registrano il maggior numero di suicidi. Ne sa qualcosa lo sgangherato quartetto protagonista de Non buttiamoci giù (titolo originale A Long Way Down), film ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore inglese Nick Hornby pubblicato nel 2005. La pellicola, approdata al cinema in questi giorni, è stata realizzata per la regia di Pascal Chaumeil e annovera nel cast Pierce Brosnan, Toni Collette, Aaron Paul, Imogen Poots e Rosamund Pike.
Londra, ultimo dell’anno, quattro infelicità convergono nel medesimo posto per «dare un taglio» alla catena di negatività di cui ritengono di essere vittime. A pochi minuti dalla mezzanotte il tetto del cosiddetto Palazzo dei Suicidi si ritrova così piuttosto affollato: per farla finita bisogna fare la fila, e nell’attesa c’è il tempo di socializzare … con i risvolti grotteschi che la situazione implica. Ciascuno di loro ha le sue (buone?) ragioni per credere di non avere più via d’uscita alcuna: l’ex conduttore televisivo Martin Sharp (Pierce Brosnan) ha tradito la moglie con una ragazza, rivelatasi poi minorenne, e paga ora lo scotto, sia lavorativo che familiare, delle sue azioni, mentre Maureen (Toni Collette) ha vissuto per anni in funzione del figlio disabile.
Completano il gruppo Jess (Imogen Poots), le cui disavventure sentimentali hanno acuito il vuoto lasciato dalla scomparsa della sorella, e JJ (Aaron Paul), reduce della fine della love story con la sua ragazza … e con la musica. L’affollamento del posto inibisce ognuno di loro dal dar seguito al drastico proposito, sostituito dal tentativo di costituire una sorta di gruppo di auto-aiuto. I quattro cominciano a frequentarsi finché, per sfuggire alla pressione dei media solleticati da una storia come la loro potenzialmente strappalacrime, decidono di andare in vacanza. Il ritorno però li imporrà di fare i conti con una realtà ormai mutata. «La prima volta che ho visto il film è stato strano.
Non trovavo il mio libro, non capivo il ritmo», ha dichiarato Hornby, che ha assistito alla proiezione della pellicola nel corso del recente Festival di Berlino. Il tutto ha un che di amaramente paradossale, se si considera che lo stile dell’autore è marcatamente cinematografico. La constatazione rispecchia peraltro pienamente la sensazione di straniamento avvertita da chi ha visto Non buttiamoci giù dopo aver letto le (dis) avventure del quartetto, e per queste si è emozionato, ha riso, pianto, e in alcuni passaggi entrambe le cose contemporaneamente.
La principale lacuna della pellicola è rappresentata dalla superficialità con cui sono stati trasferiti sullo schermo temi delicati e complessi come il suicidio e la depressione. Non c’è traccia del tocco, assolutamente peculiare, con cui Nick Hornby aveva dipanato le vicende dei quattro. Praticamente scomparso l’impasto calibratissimo con cui era stato capace di restituire, in modo vivido e immediato, quel mix proprio della vita quotidiana, in cui vicende drammatiche e risvolti comici spesso si sovrappongono e confondono. Quasi mai la pellicola è attraversata dalla disperazione e dal dolore dei personaggi, a eccezione di alcuni passaggi della seconda parte che vedono protagonista Aaron Paul, l’ex Jesse Pinkman della serie tv Breaking Bad ora al cinema con Need for Speed. Il regista confeziona un prodotto in cui commedia e tragedia faticano a trovare un ritmo comune, ad amalgamarsi, come fossero acqua e olio.
Francesco Alò (il Messaggero), recensendo il film, ha eloquentemente commentato: «quattro aspiranti suicidi più una vittima: Nick Hornby». Valerio Caprara (Il Mattino) ha scritto: «che peccato, che disappunto. In qualità di cultori di Nick Hornby, avevamo accolto con atteggiamento disponibile quasi tutti gli svariati adattamenti dei suoi inimitabili romanzi. Succede, però, che la trasposizione di Non buttiamoci giù si riveli indifendibile, quasi un oltraggio all’universo tutto chiaroscuri e folgorazioni esistenziali dello scrittore londinese: la parabola dei quattro depressi che hanno perso la voglia di vivere e stanno per suicidarsi buttandosi dal tetto di un palazzo, infatti, si è trasformata nelle mani di un regista inadatto in una farsa a bassa intensità giovanilistica in cui, non a caso, i personaggi della rampolla di un politicante e del rocker fallito annullano quelli del divo tv rovinato dal sesso e della madre distrutta dall’assistenza al figlio disabile».
Neanche la critica internazionale ha espresso pareri lusinghieri sul film, che da Variety è stato recensito così: «quattro personaggi si incontrano mentre pianificano di suicidarsi e decidono di infastidirsi l’un l’altro in questo adattamento di cattivo gusto». Tuttavia si registrano due note positive: l’interpretazione di Imogen Poots, a cui spettano le battute più taglienti e caustiche, e i rari momenti commoventi del film, associati al personaggio affidato a Toni Collette, che già in About a Boy (2002), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Nick Hornby, aveva vestito i panni di una madre divisa tra doveri genitoriali e profonda fragilità emotiva.
Tirando le somme, si tratta di una pellicola assolutamente prescindibile, e chi scrive consiglia vivamente a chi ha letto con passione il romanzo di evitare di vederla. Ci sono infatti casi – come questo – in cui sovrapporre alla propria, personale, rappresentazione dei personaggi e della storia quella altrui equivale a schiaffeggiare il proprio immaginario.