Negli ultimi giorni di campagna elettorale del 2013 si era improvvisamente ritrovata come “capo della forza politica”, come se fosse stato semplice rappresentare Fare per Fermare il declino, dopo che la sua figura simbolo, Oscar Giannino, si era trasformato d’un tratto nel bersaglio dei media e non solo. A distanza di oltre un anno, Silvia Enrico continua la sua battaglia politica come segretario politico di Ali, Alleanza liberaldemocratica per l’Italia.
Non ci sarà il simbolo alle elezioni europee, ma Ali probabilmente darà un supporto alla lista di area Alde che promuoverà Scelta civica. In teoria si doveva arrivare a un unico raggruppamento delle varie anime più o meno liberali (montiani compresi), ma Fare e Centro democratico sono scattati in avanti e andranno da soli. Cosa sia accaduto in queste settimane e cosa potrà accadere nei prossimi giorni, cerchiamo di capirlo proprio con la Enrico.
Dottoressa Enrico, Fare per Fermare il declino e Alleanza liberaldemocratica per l’Italia hanno inevitabilmente dei punti di contatto: quanto si somigliano le due esperienze e in che misura invece Ali si distanzia dal progetto attuale di Fare?
L’origine indubbiamente è comune: quel manifesto, quelle “dieci proposte” sono un patrimonio comune dell’associazione Ali e del partito Fare. Detto questo, io credo ci fosse un equivoco iniziale su quel manifesto.
In che senso?
Quei dieci punti, che hanno un carattere eminentemente economico, non erano nati per dare vita a un partito, ma per mettere a disposizione di altre forze politiche una serie di idee e progetti. Quel manifesto era stato presentato a luglio; a metà dell’autunno, con l’entusiasmo che i fondatori di Fermare il declino erano riusciti a creare intorno a quelle proposte, aveva iniziato a farsi strada l’idea di una partecipazione diretta alle elezioni politiche di quella che era ancora solo un’associazione. Quella partecipazione aveva due anime: una propensa ad alleanze con altre forze affini e una invece fortemente identitaria, che preferiva andare da soli, come poi è successo. Quel programma, sviluppato sui punti economici ma non su altri temi, ha fatto sì che si ritrovassero concordi persone che in realtà avevano una sensibilità politica molto diversa. C’era in Fare in origine una forte componente liberale, io e altri eravamo convinti che, anche se non era scritto chiaramente in quel programma non declinato, la nostra anima fosse quella liberale.
E invece?
Invece, dopo la “vicenda Giannino”, con la nuova dirigenza di Michele Boldrin, prendiamo atto che Fare diventa un partito a-ideologico, che addirittura per un periodo iniziale bandisce dal suo linguaggio interno la parola «liberale». Non è questione di parole, mi creda: è questione di capire prima chi sei, per capire come ti rapporti con i problemi dello Stato, del rapporto con gli individui e la comunità. Non si tratta di avere un’ideologia, ma almeno delle idee.
Qualcosa di simile lo ha detto anche Gianni Cuperlo, all’ultimo congresso Pd.
Ecco, vede, il nostro problema è stato definirci a-ideologici, pronti “a tutto” e “a tutti”, purché si dicesse che lo Stato in Italia è troppo presente. Questo ha finito, secondo me, per far perdere completamente di vista una cosa molto semplice: si può dialogare e cercare un accordo con chi è simile a te, per poi andare solo dopo a parlare con chi è molto diverso, trovando magari punti di convergenza su cui lavorare insieme. Per intenderci, se anche Renzi, che sta nel Pd, si convince che l’ingerenza dello Stato in Italia è troppa, non diciamo niente di nuovo nemmeno noi: detto questo, si può poi capire chi vuole ridurre la presenza dello Stato perché lo ritiene giusto e chi lo vuole solo perché mancano le risorse.Non aver fatto questo percorso di crescita prima – ad esempio confrontandoci sulle nostre posizioni sui diritti civili – indubbiamente ha inciso sull’esito finale.
Secondo lei, questa “mancanza strutturale” a cosa è dovuta?
Io credo sia dovuta a un vero “disinteresse” per questo tema. Posto che in Fare resta una base liberale, mentre non lo è più (se non a parole) la dirigenza, credo che non si sia mai pensato di far ricrescere Fare come partito, aprendo la discussione sui temi che non erano stati toccati prima e costruendo una visione complessiva per poi confrontarsi con altri. Probabilmente si è ritenuto che la batosta elettorale fosse troppo pesante e che un lavoro di ricostruzione sarebbe stato molto impegnativo: per questo, da subito ci si è concentrati per andare “oltre” Fare.
In che modo?
Prima hanno tentato l’esperimento di In cammino per cambiare, ma con realtà così diverse tra loro da pregiudicare dall’inizio possibilità di successo, non basta dire che in Italia si spende troppo. Se le migliori energie vengono spese alla ricerca forsennata di un progetto che faccia scomparire Fare in qualcos’altro, assieme a chiunque altro dica “meno spesa”, proiettando questo nella corsa verso le europee, si snatura l’obiettivo iniziale: dare vita a idee, progetti e proposte che devono per lo meno appartenere a un dibattito politico, sapendo che come tu le intendi ha un’origine, un pensiero.
Da quando Fermare il declino scelse di diventare un partito al giorno delle elezioni, crede che ci sia stato poco tempo per tentare questa discussione sull’identità? Certo l’affaire Giannino non ha aiutato a riflettere in quel periodo…
In effetti c’è stato oggettivamente poco tempo e forse poca lucidità: ingenuamente forse si è dato per scontato che su alcuni punti ci fosse una visione e una sensibilità comune. Dopo l’affaire Giannino il tempo ci sarebbe stato, ma non c’è stata la volontà.
Nelle scorse settimane sul web e non solo si era parlato di un dialogo che coinvolgeva Ali, il Pli e la Federazione dei liberali nella creazione di una lista in nome dell’Alde alle europee; addirittura si parlava di un coinvolgimento di Fare e di Scelta civica. Ora però la “doppia punta” Tabacci-Boldrin con Scelta europea cambia del tutto lo scenario. Cos’è accaduto?
Ammetto che l’alleanza tra Fare e Centro democratico difficilmente si spiega con la loro storia e le azioni portate avanti finora: in comune hanno poco o niente, se non la disperata necessità per entrambi di essere presenti a un evento elettorale, saltare le elezioni europee per due partiti gloriosi ma piccoli significa essere tagliati fuori da un dibattito politico e dai media per un periodo più che sufficiente ad azzerare tutto. In questo caso, per colpa di tutti i liberali democratici e riformatori presenti in Italia, è accaduto che lo spazio dell’Alde sia stato in qualche modo occupato da una forza che coi liberali e democratici non ha mai avuto a che fare e da un’altra che, dopo un primo periodo, ha cambiato idea.
Eppure il dialogo all’inizio sembrava fruttuoso…
Quello che stavolta stava succedendo – e mi auguro succeda ancora – è che per la prima volta da molto tempo le forze che si ritrovano nell’Alde, nei liberaldemocratici europei, si erano unite ed erano compatte nel fare una serie di richieste per cercare di riprendere gran parte della rappresentanza della nostra famiglia europea, se non tutta. Il fatto è che questo fronte comune forse è arrivato un po’ tardi.
Centro democratico e Fare dunque si erano mossi per tempo?
Cd addirittura dalla primavera-estate del 2013, dovrebbe essere stato il primo ad attivarsi; Fare direi dall’autunno.
In questo modo però la lista Alde lascia fuori tre formazioni (Pli, Fdl e Ali) che hanno il concetto di «liberale» nel nome.
La prima proposta simbolica, su cui si poteva convenire tutti, era di inserire nel contrassegno della lista solo le “pulci” dei partiti che avrebbero evitato la raccolta delle firme grazie ai parlamentari eletti, dunque Centro democratico e Scelta civica (che al tavolo è arrivata più tardi) e una dicitura come «Alleanza liberaldemocratica per l’Europa». Noi tra l’altro eravamo rinati a novembre e avevamo subito chiesto di partecipare a quel tavolo: non chiedevamo candidature, volevamo dare un contributo al programma e dare supporto ai candidati liberali in campagna elettorale, mettendo “forza lavoro” e organizzazione a disposizione della lista. In quella fase, Fare si oppose al nostro ingresso. Immagino che quel gruppo abbia instaurato una forte trattativa per inserire il suo simbolo. Scelta civica non deve aver gradito l’idea che il contrassegno diventasse un’accozzaglia di simboli, quando la lista doveva essere il primo passo per confrontarsi e lavorare insieme in vista di una rappresentanza liberale più ampia e forte in Italia. Non so come siano andate le trattative tra Scelta civica e l’Alde su questo piano; avevamo sposato alcune delle loro richieste (come il limite dei due mandati e un vero programma libdem), pare non ne sia stata accolta neanche una.
Che succederà ora?
A questo punto, è probabile che ci siano due liste nel nome dell’Alde: quella di Cd e Fare e quella di Scelta civica che raccoglierebbe una parte del mondo liberaldemocratico. Quanto ampia sarà quella parte ancora non glielo so dire. Il nostro supporto, di nuovo, sarà sul programma e sull’aiuto organizzativo ai candidati liberali in campagna elettorale.
Quindi collaborare con Scelta civica vi interessa ancora?
Se questo è un primo passo per dare vita sul piano nazionale a una rappresentanza liberale e democratica ampia e forte, noi ci siamo: siamo nati per questo. Però la lista, il programma e i candidati devono mostrare questa identità liberale, questa volontà.
Lei insiste sul fatto che siete un’associazione, non un partito: escludete di presentarvi da soli?
Ho imparato che in politica vale il detto “mai dire mai”, ma Ali non nasce per diventare un partito. Sarebbe una sconfitta se Ali da sola, magari con qualche innesto, dovesse trasformarsi in un partito.
La stampa sicuramente è stata impietosa nei suoi confronti. Certo, quella era una notizia; visto il periodo in cui era emersa, forse per il loro mestiere era anche doveroso darla in un certo modo. Poi c’è stato tutto un lavoro che francamente è andato oltre. L’attacco al capo di una forza politica ci sta, gli attacchi alla persona che continuano ancora oggi francamente no.
Credo che gli italiani non gli abbiano perdonato il fatto di essere “caduto” senza avere una rete di protezione, di conoscenze, di potere. In quel caso gli italiani non hanno pietà.
In Italia è più grave essere scoperti che mentire?
Dipende da chi viene scoperto: se viene scoperto chi appartiene alla società civile è imperdonabile, se si scopre qualcuno di potente si dice che ha commesso una leggerezza, che “siamo umani”. Abbiamo un giudizio a maglie larghe verso i potenti e ci rifacciamo su chi potente non è.