L’Economist e i suoi saggi: la democrazia è da reinventare?
Nell’ultimo decennio, abbiamo fatto più volte caso, la democrazia ha attraversato diversi momenti difficili; anche quando gli autocrati sono stati cacciati dai loro uffici, come nell’Ucraina di Yanucovich in questi giorni, i loro principali avversari hanno comunque in gran parte fallito nel creare nuovi regimi democratici efficienti.
Anche nelle democrazie consolidate come in Occidente, difetti del sistema sono all’ordine del giorno, visibili e tangibili, e la disillusione nei confronti della nobile arte della politica si fa ormai sempre più palese.
Eppure solo pochi anni fa, lo spirito democratico sembrava che avrebbe dominato il mondo, fosse inarrestabile ed ineluttabile, e facile è comprenderne la ragione; i Paesi democratici sono mediamente più ricchi rispetto agli Stati nella quale la democrazia è una chimera, hanno meno probabilità di andare in guerra ed hanno migliori strumenti per contrastare la corruzione.
Fondamentalmente la democrazia consente alle persone di parlare liberamente, con le proprie idee, consente un rispetto delle libertà essenziali per ogni individuo, quali ad esempio poter programmare il proprio futuro e quello dei propri figli. Eppure, come testimonia un saggio pubblicato dall’Economist solo qualche giorno fa, dall’eloquente titolo ‘Cos’è andato storto nella democrazia‘, conferma che questo spirito, questa tendenza dei popoli alla libertà, sta subendo gravi e preoccupanti battute d’arresto; se infatti dalla seconda metà del XX secolo, dal dopoguerra, le democrazie avevano messo radici nelle circostanze anche più difficili, persino nella Germania traumatizzata dalla guerra e dal nazismo, in India, Paese con la popolazione più povera al mondo, e nel 1990 nel Sud Africa del già compianto Nelson Mandela, Stato, com’è noto a tutti, sfigurato per decenni dall’orrore dell’apartheid, e il progresso visto nel secolo breve, secondo la celebre definizione che ne dà lo storico Eric J. Hobsbawm, sembrava inarrestabile, con il nuovo millennio tutto ciò è già passato.
Se infatti i nostri nonni, e in parte i nostri padri, hanno visto con il 900′ fenomeni di decolonizzazione che hanno generato, come sappiamo, una serie di nuove democrazie sia in Africa che in Asia, il crollo di tutti i regimi autocratici come in Grecia nel 1974, nella Spagna di Francisco Franco, in Argentina ( 1983) , Brasile ( 1985) e Cile ( 1989), e sopratutto il crollo dell’Unione Sovietica e del muro nel 1989, oggi, spiega l’Economist, la grande marcia democratica, che mosse i suoi primi passi già con le civiltà dell’età classica delle polìs greche, un cammino sempre molto accidentato che ha visto celebrare splendide conquiste, ma anche terribile cadute, sta nuovamente subendo gravi battute d’arresto, e potrebbe, dato il rischio che corre oggi, fermarsi del tutto.
La Freedom House, organizzazione non governativa internazionale con sede a Washington, negli USA, con compiti di ricerca e di studio sulla democrazia, la libertà individuale e i diritti umani, che redige annualmente un rapporto che valuta la qualità delle democrazie nel mondo, ha reso noto infatti che l’anno appena conclusosi, il 2013, è stato l’ottavo anno consecutivo in cui la libertà globale è diminuita, e, continuando di questo passo, non è difficile prevedere ulteriori difficoltà.
Tra il 1980 e il 2000, spiega infatti lo studio, la causa democratica ha sperimentato sulla sua pelle solo poche battute d’arresto, ma dal 2000 le cose sono nettamente cambiate; molte democrazie sono infatti ora solo nominali, di facciata, ma in realtà sono scivolate verso forme di potere autocratiche che mantengono dello spirito democratico solo l’aspetto esteriore, magari attraverso l’istituzione di elezioni ‘liberamente’ indette, ma senza quei diritti e quelle ‘verità di ragione’ che rappresentano aspetti altrettanto importanti, se non essenziali, di ogni sistema democratico efficiente. Cosa ha creato dunque questo crollo? Da cosa dipende il morire del fiore democratico?
L’Economist individua tre punti essenziali che a suo dire costituiscono la vera causa, o l’insieme di cause, dell’attuale crisi dei sistemi democratici, nell’ordine la crisi economica, l’ascesa della Cina e la guerra in Iraq.
Il grave danno che ha generato l’attuale condizione di crisi economica mondiale all’interno dei vari sistemi democratici, non è tanto, spiega il saggio, quello finanziario, sebbene ingente, ma psicologico, aver quindi rivelato agli individui, alle masse, tutti quei limiti che ontologicamente appartengono a sistemi complessi come quelli democratici, la disillusione, se non apertamente l’ipocrisia, che le idee di Ragione nella quali è fondato ogni sistema democratico in quanto tale, ovvero quelle di Libertà, Uguaglianza ed Indipendenza, sono ancora troppo spesso parole che vivono però solo nel regno della metafisica, se non addirittura nella mente di un sognatore, ma certamente non costituiscono una Realtà di senso compiuto, tant’è che uno dei mali di cui soffrono cronicamente le democrazie presenti, è la crescente disuguaglianza sociale, tanto da provocare una preoccupante spaccatura all’interno della stessa comunità civile, divisa per così dire in soli pochi super-ricchi, il famoso 1%, e tanti poveri, con la conseguente e inevitabile ‘estinzione’ della classe media, ovvero il corpo sociale che per essenza è portatore del seme democratico.
Le stesse istituzioni, come un parlamento ad esempio, che avrebbero lo scopo di fornire modelli ed input per la conservazione dello spirito libero di ogni democrazia, sembrano oggi obsolete, non funzionali, non rispondenti a ciò per le quale furono create dai padri costituenti.
Gli Stati Uniti, Paese per antonomasia modello per ogni democrazia al mondo, spiega l’Economist, sono diventati con il nuovo secolo sinonimo di stallo, di vecchio, la democrazia è corrotta dai brogli, il potere è nelle mani della finanza di Wall Street e delle Lobby, per cui non ci sorprenda più di tanto che anche nella Nazione della ‘Libertà’ nascano posizioni estremiste, se non anti-democratiche.
A ciò si aggiunga l’ascesa della Cina, un vero e proprio gigante con il quale il mondo, e la cultura liberale, deve fare necessariamente i conti; nella contingenza del presente il Partito comunista cinese ha già rotto infatti il monopolio del mondo democratico sul progresso economico.
Ciò che seduce infatti del Paese dalle lanterne rosse agli occhi del mondo è proprio il suo potere economico, la crescita esponenziale del proprio Prodotto Interno Lordo tale da far sembrare un ‘pivello’ persino un colosso come gli USA; differentemente infatti dai Paesi di tradizione democratica, che negli ultimi 30′ anni hanno visto rallentare la propria economia fino alle sabbie mobili dell’attuale crisi, il Paese dei mandarini ha visto raddoppiare il PIL ogni 10 anni, e nonostante agli occhi degli occidentali lo stile politico tenuto dalla governance può sembrare ‘discutibile’,’invadente’, se non ‘totalitario’, o comunque limitante la sfera delle libertà individuali, a quanto sembra ciò non dispiace affatto al popolo cinese, anzi ne accresce il ‘senso di appartenenza’. E paradossalmente, nonostante si parli di un Paese comunista, le possibilità di carriera, di fare il classico salto sociale, sono molto più concrete in Cina che un qualsiasi Stato liberale, e questo, spiega l’Economist, si deve proprio all’intelligenza e allo sforzo dell’elite di reclutare in base al loro merito i veri talenti, tant’è ogni 10 anni si assiste ad un rinnovo dei vertici politici ed aziendali.
Le conseguenze di questo Sistema nella sfera psicologica degli individui si spiegano poi da sole.
Infine la guerra in Iraq del 2004, l’evento che per l’Economist ha deturpato il vero significato della nobile parola, trasfigurandolo con quello dell’Imperialismo. Sì, perchè quando le fantomatiche armi di distruzione di massa che hanno giustificato l’attacco americano al regime di Saddam Hussein, rovesciandolo, non furono poi trovate, è naturale che ciò agli occhi del mondo fu visto come un mero gioco di opportunismo, e con esso non solo furono sacrificate da una parte e dall’altra vite innocenti, ma da un punto di vista ‘valoriale’ , con quell’errore fu inferto un colpo mortale all’idea stessa della democrazia. Cosa fare dunque per invertire questa rotta, dato che anche la globalizzazione, e con essa il trasferimento delle sovranità nazionali ad organismi di potere transnazionali, come l’Ue, non fa che accrescere il senso di ‘smarrimento’ dell’attuale civiltà?
Non ci illuda che possa esistere una risposta univoca a questa complessità, ma come afferma Alexis de Tocqueville nel suo celebre ‘ La democrazia in America‘, “le democrazie sembrano sempre più deboli di quello che sono realmente: tutte sono in confusione in superficie, ma hanno tanti di punti di forza nascosti”
Dunque come insegna il filosofo, la prima cosa che una ‘vera democrazia’ dovrebbe evitare per non rovesciarsi nell’opposto, o per non dileguarsi, e rifiorire, è una ‘dittatura di ogni maggioranza’. Perchè infatti una democrazia abbia lunga vita è necessario che le minoranze abbiano voce, rappresentanza ed anche potere decisorio, una verità di ragione questa che sembra, dunque, contraddire, per rimanere ai nostri confini, l’impianto della nuova legge elettorale, l’Italicum, proposta dal governo Renzi, che com’è noto pone soglie di sbarramento per l’ingresso nel parlamento, un’escamotage che se da una parte, come ammesso dallo stesso esecutivo, ha il merito di rendere più dinamico il lavoro del governo perchè non soggetto ai ‘ricatti‘ dei cd. piccoli partiti, dall’altra tuttavia palesa un evidente difetto di Democrazia a tutto tondo.
Tuttavia, se l’impianto della Legge elettorale del nostro esecutivo, riferendosi sempre a Tocqueville, rappresenta un passo indietro rispetto ad un autentico spirito democratico, rimanendo ancora ai nostri confini che perfettamente si prestano a spiegare cosa l’Economist e Tocqueville vogliono insegnare, l’idea di Renzi di ridurre, per così dire, il ‘volume’ dello Stato, è un’idea di ‘buona democrazia‘; perchè infatti un sistema sia efficiente, spiega l’Economist e spiega Tocqueville, lo Stato deve essere ‘stretto‘, ovvero costruire una condizione nella quale il governo, o meglio l’insieme dei poteri che poi costituiscono uno Stato, siano controllori di sé stessi, così come controllati dall’opinione pubblica. In una condizione simile, infatti, si riducono le probabilità che il potere, o i potere, seguano interessi particolari, di parte, ovvero corrotti, per rispondere meglio invece agli interessi generali della comunità.
Infine, spiega ancora il saggio pubblicato dall’Economist, è necessario decentralizzare il potere, riportarlo a livello locale, territoriale, dove il contatto tra eletto ed elettore sia concreto, visibile, se non squisitamente umano, così come sfruttare quelle enormi potenzialità che la tecnologia consente, favorendo, come già sostiene la linea politica del M5S in Italia, o dei i Pirati ad esempio in Germania, o come già avviene anche in California, una ‘hyper-democracy online‘, con la quale il voto è pubblico, le commissioni di bilancio indipendenti, le fattibilità delle iniziative elettorali possono essere toccate con mano, e dove tecnocrazia e democrazia diretta possono tenersi reciprocamente sotto controllo. Ma questo è già domani.