Modelli interpretativi per le politiche universitarie: una griglia per passare i luoghi comuni alla prova dei fatti

Pubblicato il 27 Marzo 2014 alle 12:05 Autore: Andrea Mariuzzo

Wilhelm von Humboldt, lo studioso che nel 1810 fondò la Friedrich-Wilhelm-Universität di Berlino, dotando il Regno di Prussia di un centro di studi superiori e di ricerca destinato a rappresentare un modello di efficacia per la Germania e per il mondo intero fino al cuore del Novecento, usava dire che una università che funziona non fa parlare di sé. Probabilmente è per questo che, in Italia, da un ventennio di università si parla spesso, e generalmente con discorsi privi di capo e coda anche da parte di personale politico e tecnico che ha partecipato attivamente all’elaborazione dei più recenti percorsi di riforma.

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Il fatto che i provvedimenti del 2010 abbiano trovato, prima e subito dopo la loro approvazione, il principale baluardo difensivo di fronte all’opinione pubblica in Daniela Santanchè dovrebbe essere sufficiente a chiarire a che punto si sia spinto ormai il livello del dibattito sul tema. Il problema maggiore, però, era dato dal fatto che le sue prese di posizione non sono mai apparse di qualità così tanto più scadente rispetto a quelle dei suoi detrattori sul piano argomentativo, pur venendo espresse in modo sguaiato e senza alcun rispetto per le forme più elementari di decenza linguistica.

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Per questa ragione, può essere utile partire dalle basi minime del discorso, e costruire una griglia interpretativa di base per valutare la solidità degli argomenti circolanti sulla base delle impostazioni generalmente condivise sulla base delle conoscenze disponibili.

La partenza non può che essere quella centrale in tutte le politiche pubbliche. A cosa e a chi serve l’università? Con quali soggetti le istituzioni che la governano devono confrontarsi trovandovi i propri committenti?

Una prima risposta che nessuno darà mai a queste domande, ma che in realtà ha regolato gran parte dei provvedimenti negli scorsi decenni, e ancora appare radicata nei settori più tradizionalisti e conservatori della comunità scientifica, è ben espressa dalle parole con cui Alberto Asor Rosa è intervenuto il giugno scorso, interpellato da La Repubblica, sulla persistente crisi dei percorsi di studio umanistici:

Le facoltà umanistiche sono state lasciate in un tragico abbandono dai governi competenti, nel 2003 gli ordinari di Letteratura italiana alla Sapienza erano 12, oggi sono rimasti in due. Come si fa ad appassionare gli studenti verso questi corsi di studio se il messaggio che passa è che si tratta di studi residuali, di un mondo che non c’ è più, sui quali non vale la pena di investire?

Al di là delle critiche all’incuria governativa che possono essere tutt’altro che infondate, l’idea di fondo  sottesa al ragionamento è che la riduzione degli iscritti a Lettere sia innanzi tutto un pericolo per la riproduzione, e il sostentamento, di quegli specialisti del settore che solo con un buon flusso di studenti troveranno in questo sistema una ragion d’essere. La progettazione pubblica sulla vita degli atenei, insomma, viene vista in questo quadro come destinata essenzialmente a soddisfare le esigenze professionali dei docenti. Il ruolo di accrescimento culturale e di ricerca “libera” di questi ultimi è dato per assunto, e il compito delle strutture universitarie è quindi quello di renderlo più agevole garantendo le risorse necessarie. Si tratta di un atteggiamento che Davydd Greenwood, antropologo che si occupa da tempo di action research sui problemi dell’università, ha ripetutamente definito “autistico”, perché non tiene alcun conto non solo delle esigenze sorte al di fuori del circuito autoreferenziale degli istituti accademici, che dovrebbero rappresentare il fondamento per la giustificazione dell’esistenza dell’università, ma anche dell’ovvio potere negoziale di chi fornisce da fuori i fondi necessari al funzionamento degli atenei, richiedendone un ritorno in termini di funzionalità.

Partendo da questa base è maturata la tendenza più comune non solo in Italia di guardare ai problemi dell’istruzione superiore, ovvero la proposta di una marketization del sistema che ponga dal lato dei consumatori gli studenti. La Modesta proposta avanzata lo scorso anno da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, incentrata essenzialmente su un incremento delle tasse universitarie legato a un sistema di prestiti e di sostegni ai meno abbienti, che dovrebbe portare a un graduale aumento della concorrenza virtuosa tra atenei per attrarre le risorse messe a disposizione più o meno direttamente da studenti valorizzati e responsabilizzati, è la versione tradotta (forse un po’ malamente) in italiano di una tendenza più generale, peraltro non priva di un certo fondamento.  Sicuramente, il passo avanti verso la realtà rispetto all’esclusiva centralità dei docenti e delle loro esigenze è evidente. Lo riconosce, ad esempio, Nate Kreuter, editorialista di Inside Higher Education. In un suo recente intervento, l’autore analizza in profondità lo “student-as-customer model” che ormai sembra essere diventato la vulgata più diffusa per l’autorappresentazione della professione accademica in un paese, gli USA, in cui il ruolo dell’iniziativa privata ha contribuito più che altrove al consolidamento e allo sviluppo qualitativo dell’istruzione superiore, e riconosce:

An upside to thinking of students as customers […] is that the model reminds us that we and our universities are directly accountable to students. Ours is a role of service, direct service to the students we enroll, and indirect service to the society those students will populate and some day run. We are accountable to manage university resources — human, financial, and other — around the primary mission of providing education.

La consapevolezza di dover rendere conto a degli interlocutori, insomma, contribuisce a rendere il quadro intrinsecamente più dinamico di quello fisso su una comunità scientifica che si sente legittimata a guardare solo al proprio ombelico. Ma, ammonisce Kreuter subito dopo, considerare gli studenti come clienti “ci rende responsabili per i valori sbagliati”, mettendo tra parentesi o annullando il potenziale etico di una formazione completa al sapere critico sempre meno valutata, e guardata quasi con fastidio, sul mercato delle professioni più appetibili ai laureati, eppure così importante per il buon funzionamento della società e delle istituzioni.

Questo primo avvertimento può essere ampliato ulteriormente. Lo “student-as-customer model” non è solo discutibile per i suoi effetti sul piano morale e ideale, ma è proprio incompleto sul piano concettuale. In un altro intervento di un dibattito che al di là dell’Atlantico assume toni particolarmente accesi, una lettera al direttore di Chronicle of Higher Education, Clara Burke, docente alla School of Business della University of Wisconsin di Madison, uno dei bastioni per durevolezza del progetto e qualità dei risultati dell’istruzione statale di massa negli USA, ha sfidato i sostenitori del modello ad assumersi la responsabilità di alcune contraddizioni nel rapporto con gli studenti-clienti. Molto spesso, infatti, questi chiedono dalla loro università ciò che poi non accettano o non ritengono opportuno “acquistare”, dimostrando un atteggiamento quasi schizofrenico tra le aspettative precedenti al processo di formazione e ciò che si trovano a vivere nel suo corso:

Let’s take the metaphor seriously and imagine students as customers. They are buying the chance to be exposed to and learn from the expertise of their instructors, not the opportunity to tell their teachers what to teach or how to grade. When students complain that an instructor grades harder or assigns more reading than the students like, they are complaining that the university is providing exactly what it promised (an expert who determines class content and grades) and that they did not receive an inferior product (content and grades determined by a non-expert student). That’s not a customer-service complaint; it’s a complaint from a highly confused person who has no idea what he or she paid for. After all, if I walk into a BMW showroom and complain that they aren’t offering Kias, I’m not a customer who is right; I’m just a person in the wrong place. No BMW salesperson will rush out to get me a Kia; they’ll send me packing, after trying to get me to buy one of their cars.

Scendendo ancora più in profondità con l’aiuto di una più solida prospettiva storica, inoltre, si può anche notare che la platea degli studenti degli atenei non è una variabile indipendente né un dato, ma un elemento “costruito” attraverso precise strategie e scelte politiche, e attraverso impegni di spesa e accordi tra sedi accademiche e altri soggetti politici. In particolare, la scelta di attribuire progressivamente ai “clienti” il “potere d’acquisto” necessario ad accedere al “mercato” dell’alta formazione nel modo più agevole possibile, che ha caratterizzato con vario successo nell’ultimo secolo i sistemi accademici dei paesi sviluppati con tutti i mutamenti strutturali che rendono il servizio offerto da una scuola soddisfacente solo secondo presupposti elitari e iniqui paragonabile con quello attuale soltanto nella nostalgia passatista tipicamente generata dall’ignoranza, non è interpretabile semplicemente come il tentativo di ampliare il bacino dei “consumatori” per guadagnare su un mercato più “generalista”.

Centra molto opportunamente questo problema, ad esempio, Mauro Moretti: confrontandosi in un editoriale degli Annali di Storia delle Università Italiane con le proposte più estreme e ingenue dell’higher education management, l’autore ha riflettuto sul presupposto fondamentale dello “student-as-customer model”, ovvero l’assunzione che “le ricadute positive generali della maggiore diffusione dell’istruzione superiore sono inferiori a quelle godute dai singoli che ne beneficiano”, e ha fatto notare con una punta d’ironia:

L’università non è solo un luogo deputato a rendere possibile la realizzazione di progetti individuali di tipo eudemonistico, a garantire il buon rendimento economico degli investimenti in capitale culturale. Sarebbe strano, del resto, pensare che per secoli si siano investite ingenti risorse, nei maggiori Stati civilizzati, solo per assicurare ad alcuni cittadini la possibilità di vivere agiatamente esercitando le professioni liberali. Sarebbe più o meno come affermare che gli eserciti o le forze dell’ordine esistano essenzialmente per soddisfare le aspirazioni di chi, da bambino, amava giocare con i soldatini, o a guardie e ladri.

Proseguendo, Moretti arriva probabilmente al cuore del problema:

In realtà tutti, tutti i giorni, si valgono del prodotto sociale diffuso del lavoro universitario: quando vanno dal medico, o accompagnano i figli a scuola, quando fanno ricorso a qualunque servizio tecnico, o quando attraversano un viadotto in automobile o in treno, e così via.

Insomma, se è vero che “l’università qualifica all’esercizio di professioni a volte ben retribuite”, e che quindi “è giusto […] che coloro i quali possono valersi direttamente di questa opportunità contribuiscano al mantenimento del sistema”, è anche vero che la committenza del “prodotto” universitario si ritrova in tutta la società nel suo complesso. Del resto, più che produrre le impalpabili (e di fatto inesistenti, se non hanno un sostegno concreto in carne e ossa) “competenze”, gli atenei hanno il compito di fornire alla collettività un adeguato ammontare di persone competenti. Gli studenti, in questo senso, sono più che i clienti i “prodotti” che l’università “vende”, o meglio ancora, per usare le parole che Treena Gillespie, un’altra docente esperta di gestione delle risorse nell’istruzione superiore, ha pronunciato in un parere rilasciato sulla questione su richiesta della Society for Industrial and Organizational Psychology, essi sono i “co-producers” dei “desired educational outcomes”. Da un lato, infatti, se un barbiere è in grado di svolgere un lavoro della stessa qualità a prescindere dall’atteggiamento del cliente, questo è impossibile in un contesto educativo (e proprio su questo elemento, peraltro, si basa il tentativo degli atenei a elevata reputazione di selezionare all’ingresso gli studenti sulla base di attitudini e potenzialità più che sulla base di quanto possano pagare per comprarsi il posto). Dall’altro, in questi termini si deve inquadrare il rapporto tra il mondo universitario e la politica, dimensione rappresentativa della società, dei suoi interessi e delle sue strategie. Per chiudere tornando al contesto della riorganizzazione universitaria italiana, la tanto agognata “autonomia” universitaria, infatti, potrà funzionare solo come istituzione di un confronto il più possibile diretto e immediato tra mondo universitario e decisori legislativi ed esecutivi, senza l’ingombrante cuscinetto di una burocrazia ministeriale ormai da decenni inadeguata nel suo ruolo di strumento di applicazione delle scelte condivise.

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L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
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