Si avvicina la data delle celebrazioni del ventesimo anniversario del genocidio in Ruanda. Saranno celebrazioni di rito, perlopiù. Celebrazioni innocue, abbastanza inutili a svolgere la funzione che le celebrazioni (anche se celebrazioni, cioè ricordi) dovrebbero anche avere: cioè rendere chiare le cause che hanno reso possibile cioè che è accaduto in modo da disinnescare la possibilità che accada di nuovo.
Per la grande maggioranza di queste celebrazioni non sarà così perché temo che non verranno fuori le cause vere (e per molti versi inconfessabili, anche a distanza di venti anni) che hanno portato al genocidio.
Per esempio saranno in pochissimi a dire che l’attuale Ruanda e il regime che lo guida vive di rendita su quel genocidio. E’ come se avesse un credito con la comunità internazionale che accetta, a maggior ragione in questi giorni di celebrazioni, di fare silenzio sul ruolo che il Ruanda svolge oggi nella regione dei Grandi Laghi e sulla situazione interna.
Su questo blog il tema è stato trattato. Mi limito qui a semplificarlo. Il Ruanda è un piccolo paese, grande poco meno del Piemonte, fortemente abitato, circa dodici milioni di persone, che ha conosciuto dal genocidio ad oggi una crescita quasi dirompente.
Crescita dovuta anche al fatto che Kigali, con una politica estera aggressiva e invasiva, ha potuto beneficiare di ricchezze minerarie che sul suo territorio non ci sono, ma su quello del vicino Congo si.
Il Ruanda, poi, ha bisogno di terra. E’, come detto, il paese più densamente abitato d’Africa. Non c’è terra per tutti mentre oltre frontiera c’è terra in abbondanza, adatta all’agricoltura e ricca di minerali.
In più quei territori (Nord e Sud Kivu) sono abitati anche da popolazioni di origine ruandese, i cosiddetti banyamulenge (profughi tutsi di lunga data), critici con il lontano potere centrale di Kinshasa.
A tutto questo deve aggiungersi la situazione politica interna. Paul Kagame è al potere da venti anni. Ha sempre vinto in modo bulgaro qualunque consultazione, ma la classe politica e soprattutto i militari, cominciano a contestarlo.
In questa situazione di tensione e di ricerca di uno sbocco politico in molti hanno ipotizzato che la terza “violazione” dei confini coloniali africani (dopo l’Eritrea e il Sud Sudan) potrebbe avvenire proprio sulla frontiera tra Congo e Ruanda. Non è un caso che in questi anni a più riprese il regime ha ipotizzato una sorta di “Tutsiland” che non rispettasse le frontiere stabilite.
Il genocidio del 1994, che si fece forte del conflitto storico (ma mai così sanguinoso) tra Hutu e Tutsi, avvenne proprio per avviare un grande cambiamento di equilibri nella regione dei Grandi Laghi. Oggi quella esigenza c’è di nuovo.
Per le celebrazioni del genocidio bisogna dire forte che il genocidio non fu un contrasto tra africani, ma un contrasto di interessi esterni e interni di una classe politica su un altra.
Raffaele Masto