In picchiata verso la catastrofe? Il governo dell’università italiana in un grafico
Il 21 febbraio scorso, al secondo convegno organizzato dall’associazione culturale ROARS su Politiche per la ricerca e formazione terziaria in Europa. Le sfide per l’Italia, Paolo Rossi, docente all’Università di Pisa, ha presentato un interessante e documentato intervento su Il reclutamento accademico nel contesto della crisi, in cui ha commentato l’andamento delle curve di assorbimento di personale nei ruoli universitari individuando gli effetti delle recenti riforme e avanzando alcune possibili previsioni per il futuro.
Rinviando al video del suo intervento integrale per ulteriori specificazioni, io mi limiterò a prendere in considerazione uno dei grafici da lui presentati, secondo me efficacemente riassuntivo della situazione:
Le curve mostrano rispettivamente il numero di ricercatori universitari a tempo indeterminato, professori associati e professori ordinari selezionati dal sistema di reclutamento universitario dal 2006 fino al 2013.
Un primo elemento salta chiaramente agli occhi: la comune tendenza alla decrescita fino ad avvicinarsi quasi allo zero. Si tratta di un andamento significativo se si tiene conto di due fattori destinati a pesare nel medio-lungo periodo. In primo luogo, che questi numeri (al contrario di quanto ingenuamente assumono i non addetti ai lavori) sono al lordo del turnover con i pensionati: in pratica, in un momento in cui stanno lasciando l’università le coorti di età nata intorno al 1945, che per ragioni legate alle politiche di assunzione precedenti hanno offerto nel nostro paese più docenti e ricercatori di ogni altra generazione nella storia, il rubinetto delle sostituzioni è chiuso, con una evidente riduzione della quantità di occupati nel settore, un peggioramento del rapporto numerico tra docenti e studenti proprio quando si dichiara necessario rendere l’esperienza culturale dell’università più intensa e “vissuta”, e la necessità dei dipartimenti di ricorrere in misura crescente, per garantire un’offerta di corsi adeguata alla sopravvivenza, a contratti di insegnamento precari di durata annuale o semestrale mal (o, con qualche escamotage, non) pagati e inadeguati a garantire progetti didattici di ampio respiro. In secondo luogo, questa chiusura delle posizioni rispetto agli anni precedenti ritarda, o nella maggior parte dei casi probabilmente annullerà, l’entrata nel sistema di quel personale che tra 20-25 anni dovrebbe essere al vertice della “piramide” dei ruoli accademici, dotato di sufficiente esperienza e competenza per guidare la propria categoria professionale e la gestione economica e culturale delle istituzioni accademiche. Ci apprestiamo, insomma, a costruire un sistema destinato a ritrovarsi in tempi relativamente brevi acefalo, e quindi a criticare l’inefficienza di una comunità scientifica che abbiamo pervicacemente voluto costruire ed ottenere.
Le date che segnano questo ritmo, con un primo drastico calo nel 2008 ripetuto, in forma finora irreversibile, 3 anni dopo, sembrano legare le difficoltà a sostituire il personale in pensionamento allo stretto controllo del turnover nei ruoli della pubblica amministrazione messo a punto dall’ultimo governo Berlusconi e poi mantenuto senza possibilità di ridiscussione a causa del precipitare della situazione dei nostri conti pubblici. Questo è vero solo in parte. Si considerino infatti i dati esposti da uno studio proposto all’inizio dell’anno dalla Fondazione Giovanni Agnelli sull’evoluzione numerica del personale scolastico:
L’andamento di ogni singola curva potrebbe essere oggetto di considerazioni molto interessanti, e chiarire quali ambiti del servizio e del controllo sociale pubblico hanno rappresentato, di volta in volta, una priorità per la politica. Quello che interessa mettere in evidenza qui è che tra i vari settori della pubblica amministrazione, insomma, quelli a gestione MIUR hanno registrato nell’ultimo quinquennio una riduzione mediamente quasi doppia, in termini percentuali, rispetto alla media ricavata dal confronto con altri rami del pubblico impiego.
Istruzione e università, insomma, hanno rappresentato finora il più evidente ambito di riduzione di spese e investimenti pubblici, e forse l’unico ad aver dato risultati strutturali con una effettiva riduzione dei soldi richiesti “a regime”. Questo risultato era peraltro inscritto nelle riforme portate avanti negli anni Duemila da Moratti e Gelmini, profondamente diverse in alcuni elementi d’impianto generale (si è infatti passati dalla moltiplicazione dei corsi di laurea e dal supporto al consolidamento di nuove sedi, in continuità con l’interpretazione berlingueriana del Bologna process, a una stretta anche sulle unità amministrative e sull’espansione dell’offerta di insegnamenti) ma coerenti nella scelta di porre termine al ruolo di ricercatore universitario sostituendolo con posizioni temporanee. Come si vede bene dal grafico di Rossi da cui sono partito, infatti, sebbene negli ordinamenti italiani non esistesse e tuttora non esista una distinzione tra reclutamento e promozione quello di ricercatore universitario ha rappresentato il ruolo principe per le immissioni di nuovo personale stabilizzato, e la gran parte di associati (e, in prospettiva, di ordinari) è stata pescata nel novero di chi aveva già quella posizione. All’aumento nelle assunzioni di ricercatori è spesso corrisposto un incremento simile di “passaggi di grado” nella carriera. Di conseguenza, riducendo a zero il numero di ricercatori senza dare inizio a specifici incentivi in senso contrario, si rischia seriamente (e i dati confermano il timore) di troncare alla radice il ricambio, azzerando la “pressione” dal basso verso l’alto e trasformando quello che dovrebbe essere “reclutamento” di forze fresche in una più lenta promozione di chi è già assunto, capace di intasare i canali d’ingresso.
L’unica inversione di tendenza possibile sarebbe determinata da una maggiore decisione nella promozione dei contratti a tempo determinato con stabilizzazione finale in caso di conseguimento dell’abilitazione scientifica, impropriamente spacciati per tenure track, ma per ora tutto sembra congiurare in senso contrario. Sicuramente non aiuta il loro costo elevato, e la recente messa in discussione proprio dell’unico passaggio che può assicurare ad ora l’assunzione fissa sembra rendere un reale funzionamento del meccanismo un miraggio. A ciò si deve però aggiungere il fatto che il percorso di supposta stabilizzazione dei precari è stato progettato secondo passaggi “a scadenza” di durata limitata e non replicabili, che sono stati presentati dal legislatore come il percorso “ideale” a responsabilità e impegno didattico e amministrativo crescente che un giovane studioso “eccellente” può compiere senza difficoltà, ma che in realtà, senza la certezza di assicurare fondi per ogni posizione, si trasformerà facilmente nella secca in cui le carriere andranno a un certo punto ad arenarsi per assenza di opportunità, e con l’aggravante di una “retorica dell’eccellenza” in base alla quale, se il percorso progettato e imposto rigidamente per decreto è il normale processo di stabilizzazione per personale di grande qualità, chi non riesce a completarlo non ha successo per suoi limiti nelle capacità professionali e quindi non deve lamentarsi per colpe sue. Le conseguenze di tutto questo hanno iniziato a farsi sentire con rapidità sorprendente, stando ai dati che nel 2012 parlavano dell’allontanamento da dipartimenti e istituti di ricerca di circa ventimila esperti studiosi che avevano il solo difetto di essere precari, e di una loro riduzione di circa il 50% rispetto al momento dell’approvazione della riforma due anni prima.
Al di là di questo, però i dati raccolti da Paolo Rossi fanno anche riflettere su un’altra cosa. Già per questi ultimi anni, ma il fenomeno sarebbe ancora più evidente se si allungasse il periodo dei rilievi, il grafico delle assunzioni mostra che il trend discendente ha conosciuto diverse inversioni di tendenza anche molto marcate. Proprio questo andamento a scatti, però, appare fuori luogo in un sistema che per diversi decenni ha assorbito, anno per anno, una quota di personale simile, eventualmente normalizzata al rapporto con il numero di studenti. Da almeno 35 anni, in effetti, le dinamiche di reclutamento appaiono guidate non tanto dalla soddisfazione delle necessità del sistema, quanto dalle disponibilità dell’amministrazione centrale, che su via libera del ministero ha consentito di procedere alla selezione di nuovo personale mettendo a disposizione le coperture per gli stipendi. Il risultato di questo “tira-e-molla” è stato un andamento a scatti sempre meno pronunciati, solo in parte assimilabile ai meccanismi di “vuoto” e “pieno” tipici dei sistemi di assunzione fortemente controllati, i cui tempi di “smaltimento” sono di solito decisamente più lunghi di quelli che si presentano ai nostri occhi nei grafici di Rossi. Per chi conosce la storia di questi ultimi tempi, infatti, la riapertura temporanea del reclutamento è assai più chiaramente coincisa o con necessità di consolidare il consenso politico ed elettorale da parte delle maggioranze governative, o con spinte in larga misura corporative e di lobbying, generate dalla necessità delle sedi locali e dei loro referenti nella comunità scientifica di procedere a sanatorie con l’immissione in ruolo dei precari che, nei periodi di pausa delle assunzioni, si erano sobbarcati compiti non loro contribuendo a tenere in piedi la baracca e maturando dei crediti rispetto ai propri vertici di riferimento.
Non è difficile capire quanto poco sano sia gestire l’immissione in ruolo del personale docente in questo modo. Tanto più se, da almeno un decennio, il MIUR ha a disposizione una messe di dati ampia e completa sulla situazione di docenti e studiosi impegnati a tutti i livelli nella didattica accademica e nella ricerca. Ogni bando, ogni richiesta di accreditamento, ogni programma di finanziamento ha avuto una partecipazione tale da renderlo un autentico censimento della situazione generale di ogni articolazione del personale attivo negli atenei. Eppure, il ministero non sembra non solo riuscire, ma neppure curarsi di gestire e raffinare i dati in modo da individuare davvero le esigenze funzionali del sistema e delle sue parti, di richiedere gli strumenti giuridici ed economici necessari per farvi fronte e per concentrare la propria azione in quei termini. Ci troviamo di fronte, insomma, a una burocrazia cieca, a cui tutte le riforme degli ultimi anni si sono ben guardate dal togliere un ruolo decisivo nella concreta determinazione delle politiche universitarie, e che quindi si ritrova a gestire un universo da cui ormai è sempre più distante e che rifiuta di conoscere attraverso canali moderni ed efficaci. Si tratta di un risvolto preoccupante, in prospettiva futura, almeno quanto i puri dati numerici.