Il mago di Zo
Chesapeake, stato della Virginia, 8 febbraio 1970. Nasce Alonzo Harding Mourning Jr. È un bel bambino, sano e robusto. I genitori si guardano felici. Negli occhi tutte le speranze e le aspettative di qualsiasi genitore che vede nascere il proprio figlio..
Dissolvenza…
1992, draft NBA. Con la prima chiamata assoluta più scontata della storia, Orlando chiama Shaquille O’Neal da Louisiana State. Con la numero due, il nome che David Stern pronuncia per gli Charlotte Hornets è proprio quello di Alonzo, in uscita dopo quattro anni (altri tempi) da Georgetown, college di grandissime tradizioni in fatto di centri (Ewing e Mutombo i più importanti di quel periodo). Sì perché il bambino di Chesapeake è cresciuto parecchio in questi anni, e adesso abita nel corpo di un colosso di due metri e dieci per 110 chili di peso.
L’impatto sulla lega è devastante. Zo, come lo chiamano tutti, viaggia nella sua stagione da matricola a 21.0 punti, 10.3 rimbalzi e 3.47 stoppate a partita. Con Larry Johnson in ala forte forma una coppia di lunghi formidabile. I giovani Hornets centrano i play off e superano il primo turno grazie anche al canestro della vittoria del loro pivot in gara 4. Al secondo turno vengono eliminati dai New York Knicks. Meglio prepararsi perché in questa storia li rincontreremo più volte. Ci sono comunque belle prospettive a Charlotte. Nucleo giovane, stelle emergenti, ma per arrivare all’olimpo del titolo NBA, il più ambito e importante traguardo per chi gioca a basket negli Stati Uniti, le variabili sono infinite, e se non si incastrano tutte alla perfezione addio sogni di gloria. Capita così a volte che una delle tue stelle debba saltare 31 gare per infortunio, e che nonostante Zo metta insieme un’altra grande stagione, il record di 41 vinte e altrettante perse non basti a centrare di nuovo i play off. Capita ancora che l’anno seguente le tue stelle inizino ad avere qualche screzio tra loro, e nonostante riescano ad accedere di nuovo ai play off (sconfitti dai Bulls del rientrante Jordan in 4 gare) la società sia costretta a cedere una delle due per salvare spogliatoio e ambiente.
È Zo quello ad essere scambiato. Lo prende Pat Riley, uno dei più carismatici allenatori dell’intero sport professionistico americano, a Miami (per Glen Rice e Matt Geiger) con un contratto di sette anni e 105 milioni di dollari, facendone di fatto l’uomo franchigia attorno a cui costruire una squadra da titolo. Mourning incarna perfettamente lo spirito che Riley chiede alla squadra: durezza estrema, intensità incredibile, difesa prima di ogni altra cosa. Lui e il playmaker Tim Hardaway formano l’asse portante di quegli Heat che sotto la guida del loro coach diventano ospiti fissi della post season, ma devono fare i conti con altre due potenze dell’est di quel periodo: gli imbattibili Chicago Bulls di Michael Jordan, e i sopracitati Knicks di New York in cui gioca il suo grande amico Pat Ewing. La rivalità coi bluarancio si arricchisce per tre anni consecutivi di battaglie epiche tali che meriterebbero un capitolo a parte. Cercando di riassumere: Nel ’98, coi Newyorkesi favoriti, una gigantesca rissa scoppiata in gara 5 della semifinale di conference, costringe l’NBA a squalificare così tanti giocatori da ambo le parti da dover suddividere le squalifiche sulle due partite seguenti.
Ad approfittarne è la truppa di Zo che vince per 4-3 e perderà contro Chicago nel turno successivo. L’anno dopo Miami ha il miglior record ad Est e incontra di nuovo i rivali, qualificatisi con l’ultimo posto disponibile e nettamente sfavoriti. New York però trova motivazioni particolari e impatta la serie sul 2-2 tornando a Miami per la gara decisiva, visto che al tempo il primo turno si gioca al meglio delle cinque partite. La gara è equilibratissima, Miami è avanti di uno quando, con 4 secondi sul cronometro e la rimessa in attacco, Allan Houston riceve e tira sbilanciatissimo. La palla colpisce il primo ferro, si impenna, si appoggia al tabellone, sbatte di nuovo sul ferro interno ed entra nella retina gelando la American Airlines Arena. Stessa sorte che si ripeterà nel 2000, sempre a Miami, sempre per un maledetto punto, stavolta in gara sette.
Ancora una dissolvenza, stavolta più breve. Saltiamo in avanti solo di qualche mese, dopo che i miracolosi Knicks hanno sfiorato l’impresa di vincere il titolo partendo dall’ottavo posto, e soccombendo solo in finale agli Spurs di Duncan e Robinson.
Alonzo è da poco tornato da Sidney, sfoggia un oro olimpico al collo a testimonianza della -sofferta- vittoria di Team USA nel torneo di pallacanestro, ma pur essendo quello il più grande traguardo finora raggiunto in carriera (l’altro è l’oro mondiale di Toronto nel ’94) non è del tutto contento e sereno. Si sente insolitamente stanco ed affaticato. Lui, fisico scolpito come quello di un dio greco, in grado di sollevare 220 chili alla panca, giocatore sinonimo di energia come pochi nella NBA. Si consulta coi medici dello staff di Miami che lo sottopongono a tutti gli esami del caso, ed il responso è una autentica mazzata: “glomerulosclerosi segmentaria e focale”. In sostanza, una malattia renale che nei casi più gravi obbliga addirittura al trapianto. Zo, abituato a chiedere al suo fisico sempre il massimo in ogni partita, dopo anni di antidolorifici paga un prezzo salatissimo alla sorte, ma si sottopone a cure pesanti e riesce a rientrare, anche se solo per 13 partite. L’anno seguente torna in campo giocando tutta la stagione, ma la squadra è in ricostruzione e non arriva ai play off. Questo però è purtroppo l’ultimo dei problemi del centro, che vede aggravarsi ancora la sua situazione medica e resta ai box per tutto l’anno successivo.
Nell’estate del 2003, con il contratto in scadenza, i medici gli danno il permesso di tornare a giocare, ma Riley non può più offrirgli i soldi che chiede, e Zo lascia gli Heat per accasarsi ai New Jersey Nets dell’amico Jason Kidd. Bella squadra, uno dei migliori play della lega, ma quei reni solo con la terapia non si riescono proprio a sistemare. Zo gioca appena 12 partite, quindi è costretto ad annunciare pubblicamente il suo ritiro per sottoporsi ad un trapianto. Il 19 dicembre 2003, grazie al rene donatogli da un cugino, il protagonista della nostra storia torna a poter vivere una vita normale, lontano dallo spettro della dialisi. Se però in tanti, tantissimi, in una situazione del genere si sarebbero arresi alla sorte e alla sfortuna, accontentandosi di un’esistenza “da uomo comune”, noi abbiamo scelto di parlare di un guerriero vero, e quindi non deve sorprendere che l’uomo da Chesapeake abbia un nome fissato nella propria mente: Sean Elliott. Sean Elliott è infatti il primo giocatore della storia della NBA ad essere riuscito, nel 2000, a rientrare nella lega dopo aver subito lo stesso tipo di trapianto per lo stesso tipo di problema.
Le immagini si annebbiano ancora. Passano sopra a mesi di fatica e riabilitazione, all’ok per tornare a giocare, alla cessione a Toronto e al rifiuto di spendere gli ultimi momenti di carriera per una franchigia senza ambizioni di titolo, fino a focalizzarsi di nuovo sul ritorno a casa a Miami, dove Riley, ora passato a fare il presidente, lo prende per coprire le spalle a Shaq, arrivato in estate per affiancare l’astro nascente di Dwyane Wade e offrire al team nuove ambizioni di titolo.
Zo accetta il nuovo ruolo, ma un infortunio a Wade spegne i sogni di gloria in finale di Conference. Dopo l’ennesima delusione, Zo cova nuovi propositi di ritiro, ma Riley lo convince a restare almeno un altro anno. L’idea è giusta, e gli Heat cavalcano fino alla prima finale della loro storia, dove affrontano i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki e Jason Terry, anche loro alla prima assoluta sul palcoscenico cestistico più importante.
Dallas sfrutta il vantaggio del fattore campo e vince facilmente le prime due partite. Trasferita la serie a Miami in gara tre, solo un miracoloso ultimo quarto salva i padroni di casa da uno 0-3 che avrebbe avuto il sapore di una sconfitta quasi certa. Miami invece rimonta e torna dopo cinque gare a Dallas in vantaggio 3-2. I Mavs partono forte, e con Shaq che ha presto problemi di falli Riley deve buttare subito Zo nella mischia. Sì, avete letto bene, Riley è tornato in panchina. Più o meno a metà stagione coach Stan Van Gundy rassegna le dimissioni per misteriosi “motivi famigliari”, roba che si scriveva alle superiori sul libretto delle giustificazioni per non stare a spiegare che quel giorno, a scuola, proprio non avevi voglia di andarci. In tanti, compreso chi vi scrive, pensano che i veterani volessero che fosse Riley a guidare la squadra, considerando Van Gundy non in grado di portarli al titolo, e che sotto queste pressioni il coach avesse lasciato l’incarico nella maniera più indolore possibile. Dunque dicevamo di Riley, e soprattutto di Alonzo. Dallas preme sull’acceleratore per sfruttare il fattore campo e va in vantaggio, O’Neal è in panchina e l’inerzia del match è in mano agli avversari. Consapevole di avere un’occasione quasi irripetibile per conquistare il traguardo di una intera carriera, il totem di Miami trascina i compagni alla rimonta con una prova di mostruosa intensità, anche per i suoi elevatissimi standard. In quattordici minuti di autentica trance agonistica, riporta la sua squadra in vantaggio scoraggiando qualsiasi incursione avversaria sotto il suo canestro, e chiude con cinque clamorose stoppate tra cui l’ultima, forse la più decisiva, a impedire il canestro del pareggio di Terry negli ultimi minuti spedendo la palla oltre la quinta fila. Mourning tarantolato che si agita a terra dopo la prodezza vi dice della carica emotiva del giocatore quella sera. Miami, grazie anche al contributo fondamentale del mago di Zo, conquista così il primo titolo della sua storia, permettendo inoltre al suo giocatore più rappresentativo, il primo degli Heat a ricevere l’onore di vedere la propria maglia numero 33 ritirata, di coronare il sogno e gli sforzi di una carriera intera. Zo, che si ritirerà poi ufficialmente nel 2008 in seguito ad un tremendo infortunio al ginocchio, ma non senza aver prima recuperato ancora una volta al 100%, resta probabilmente il più grande emblema per qualsiasi atleta di come, con forza d’animo, dedizione e spirito di sacrificio, non esistano infortuni, difficoltà o incidenti di percorso da cui non si possa tornare più forti di prima. La più grande magia del “Mago di Zo”, senza dubbio.
Marco Minozzi