James Foley, rimosso il video: se Youtube e Twitter decidono su cosa è comunicabile
La necessaria premessa è che la notizia della decapitazione di James Foley, reporter statunitense, è tanto drammatica da rendere difficile commentarla sotto ogni profilo senza correre il rischio di peccare di mancanza di sensibilità. Se si supera tale naturale resistenza umana e si sceglie di parlarne, tra le tante, c’è una notizia nella notizia sulla quale val la pena soffermarsi un istante.
Twitter e YouTube, nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione online del video, hanno deciso di bloccarne la circolazione attraverso i loro canali e il Ceo del social network, con un proprio cinguettio, ha addirittura avvisato gli utenti che condividendo le immagini in questione avrebbero rischiato la sospensione dei loro account. Due giganti dell’intermediazione dei contenuti altrui che dettano una linea editoriale su una questione intrisa di considerazioni etiche, politiche e deontologiche di straordinaria complessità per chiunque, inclusi i direttori delle maggiori testate giornalistiche e televisive del mondo intero.
E’ giusto o sbagliato lasciare che lettori, telespettatori e utenti si imbattano in immagini di rara crudeltà ed ineguagliabile drammaticità? E’ una domanda provando a rispondere alla quale inevitabilmente si correrebbe il rischio di peccare di superficialità perché, probabilmente, non c’è una risposta universalmente valida ma ci sono tante risposte quante sono le culture, le sensibilità ed i costumi della popolazione del pianeta. Certo è difficile accettare l’idea che un bambino – ma, forse, persino un adulto – facendo zapping in televisione o “spolliciando” su un iPad possa imbattersi in un video nel quale ad un uomo viene tagliata la testa.
Ma il punto sollevato dalla decisione di Twitter e YouTube è un altro. A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? A chi tocca decidere come un fatto, drammaticamente vero, può e deve essere raccontato? All’editore di un giornale o di un telegiornale, al direttore di una testata, al singolo giornalista certamente sì perché questo genere di decisioni rientra nella propria linea editoriale. Ma tocca – o almeno è giusto che tocchi – anche a chi ha scelto di non fare né l’editore, né il giornalista ma di limitarsi ad intermediare contenuti altrui? Tocca anche a chi, per legge e per contratto, non è responsabile in alcun modo dei contenuti postati dai propri utenti, sui quali – giustamente – ricade ogni responsabilità giuridica, etica e morale sulla pubblicazione di un contenuto?
A leggere le condizioni generali di YouTube, non c’è alcun dubbio che Google che gestisce il servizio possa legittimamente – almeno sotto il profilo contrattuale – rimuovere ogni contenuto pubblicato dagli utenti che contrasti con le linee guida di utilizzo del servizio nelle quali, tra l’altro, c’è scritto che “Non è permessa alcuna forma di violenza evidente o gratuita. Se il video mostra persone che vengono ferite, aggredite o umiliate, non pubblicarlo” e ancora “YouTube non è un sito shock. Non pubblicare video disgustosi di incidenti, persone morte e altri soggetti simili”.
Meno pacifico a leggere i termini di uso di Twitter che anche il social network da 140 caratteri possa fare altrettanto e, soprattutto, possa spingersi – come pure annunciato dal suo Ceo – asospendere gli account degli utenti che ritengano di condividere link o immagini del video in questione. La pubblicazione di link o immagini di violenza, infatti, non sembra rientrare né tra i contenuti che è vietato condividere né tra i comportamenti che possono determinare la sospensione dell’account.
Ma queste, son questioni da legulei ed azzeccagarbugli davanti alla sostanza del problema: è eticamente, politicamente e democraticamente giusto che gli intermediari della comunicazione traccino limiti e confini della libertà di comunicazione? E’ fuor di dubbio che YouTube e Twitter hanno scelto di bloccare la circolazione dei contenuti in questione a tutela del loro pubblico. Non c’è – o almeno è difficile rintracciare – nessuna ragione di carattere commerciale o economico che, anzi, avrebbe, probabilmente, suggerito una scelta diametralmente opposta. Quella dei due colossi del web statunitense è, dunque, una decisione che meriterebbe di essere definita “nobile”.
Ma tanto non basta a trovare una risposta alla domanda che in tanti, online e offline, si stanno ponendo: è giusto o non è giusto che siano due intermediari della comunicazione a decidere? E perché bloccare il video di Foley e non tante altre atrocità, violenze e scene raccapriccianti che, purtroppo, circolano in Rete ed hanno eguale impatto mediatico? Certo, per legge e per contratto, Twitter e Google non hanno alcun obbligo di intervenire in casi come questo ma è fuor di dubbio che, quando lo fanno – così come quando non lo fanno – date le dimensioni globali ormai assunte influenzano la “linea editoriale” della comunicazione del mondo intero e tracciano, in modo insuperabile, de facto, i confini della libertà di comunicazione. Nessuna legge di nessuno Stato, nessuna cultura per quanto radicata, nessuna regola morale per quanto profonda, allo stato, è in grado di segnare in modo più incisivo un simile confine e di garantirne il rispetto.
E’ per questo che l’episodio – i cui risvolti drammatici sono, naturalmente, ben altri – ci mette sotto gli occhi una realtà non nuova ma non trascurabile: ai tempi della comunicazione globale, la linea del comunicabile e del non comunicabile può, di fatto, essere tracciata da soggetti che non hanno nulla a che vedere con la produzione dei contenuti. Guai a dire che si tratti di una situazione giusta o sbagliata ma, certamente, si tratta di una situazione che dovrebbe essere la conseguenza di una scelta politica dei Parlamenti e dei governi dei diversi Paesi del mondo ed essere sottratta a qualsivoglia altra dinamica per quanto nobile essa sia.